Archivio Storico 2011-2017

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Il cappone ripieno alla lombarda

23 Dicembre 2011
La metafora della perfetta padrona di casa
Da sempre a casa mia il cappone farcito più di ogni altra portata interpreta il Natale: è il pezzo forte la cui ricetta passa rigorosamente di madre in figlia, e che, mettiamola così, identifica colei che lo porta in tavola, quasi che le carni tornite e il ripieno inimitabile siano una metafora culinaria della padrona di casa. Un cappone che si fa aspettare tutto l'anno, e si fa ricordare per il resto dell'anno a venire come un'impresa gastronomica di tutto rispetto.
Non per niente uno dei miei ricordi più vividi del desco natalizio risale al primo anno di matrimonio – correva il 1999 -, quando mia suocera si impose (tra l'altro a casa mia) con la sua tacchinella ripiena, frutto di una stravagante ricerca su qualche rivista femminile dei ruggenti anni Novanta, e mai più abbandonata per abitudine. Per me, che ero abituata a considerare il cappone di mia madre come il Sacro Graal, fu un colpo terribile: mi sembrò come se mia suocera mi stesse dicendo che la matriarca era lei e che non avrei dovuto minimamente pensare di intaccare il suo ruolo. Credo che da qui, proprio dal cappone mancato, partirono molte delle nostre future incomprensioni (fortunatamente abbastanza contenute). L'anno successivo, volendo evitare il dramma familiare, dovetti stare nuovamente al gioco e così tollerai ancora una volta la sua stopposa tacchinella, che io consideravo un po' un'americanata fine a se stessa. Dal terzo anno, però, forte del fatto che avevo avuto il primo figlio, e che il mio posto in gerarchia l'avevo un pochino conquistato, azzardai una mossa strategica: accettai la tacchinella sforzandomi di lodarla il più possibile come la migliore che mi avesse portato; ma contemporaneamente, e a sorpresa, sfoderai il mio primo, personalissimo cappone di (ormai nemmeno più così fresca) sposina. Inutile dire che fu un'ovazione e che mio suocero in persona, uomo serafico ma anche particolarmente di mondo, principiò a tagliarlo e a distribuirlo davanti a tutti lodandone il ripieno e chiedendomi pubblicamente di non farlo mai più mancare sulla tavola di Natale. Si arrivò così, grazie al suo provvidenziale intervento, ad un compromesso storico: mia suocera, ferita duramente nell'orgoglio, avrebbe continuato a propinarci la sua tacchinella, avendo bisogno di qualche anno di assestamento per digerire il rospo; io, nel frattempo, avrei omaggiato in seconda battuta i convitati con il mio cappone, che man mano diventava sempre più pasciuto grazie all'aumentare dei figli al desco parentale. Arrivati al quinto nipote, e la suocera dicendosi soddisfatta incredibilmente del cappone, della prole e (non sia mai) persino della nuora, il prezioso volatile diventava finalmente il protagonista indiscusso del Natale di casa mia: correva l'anno di grazia 2007. Con buona pace di tutti e estrema soddisfazione di mio marito, che fino ad allora, dato che il Natale fortunatamente arriva una volta all'anno, si era limitato a osservare la contesa in maniera imparziale, pur tifando sommessamente per il cappone di casa: a lui solo, infatti, spetta da sempre la delicata operazione chirurgica del riempimento e della cucitura del volatile, che, se fatte malamente, possono compromettere il buon esito della ricetta.

Detto questo, sarete curiosi di conoscere le mie dritte sul cappone. Il fatto è che di anno in anno io aggiusto il tiro, modificando leggermente qualcosa nel ripieno, che tendo a preparare in anticipo e a congelare per avvantaggiarmi sui lavori. Ad ogni modo si prepara un impasto di base amalgamando la luganega (ossia la nostra salsiccia a nastro, senza finocchio) con la trita di vitello, la mortadella di Bologna tritata, e poi parecchi amaretti sbriciolati, grana grattugiato e noce noscata e si aggiungono a sorpresa pistacchi, noci , pinoli, uvette fatte macerare nella grappa, mostarda di Cremona a pezzettini, il tutto in proporzioni variabili secondo il gusto. Volendo, anche olive e castagne, anche se io onestamente non le metto. Si farcisce il cappone sino a tre quarti, lo si richiude, lo si pone in acqua fredda salata con sedano, carota, cipolla, prezzemolo e lo si fa bollire per almeno due ore, anche tre: nel varesotto è infatti usanza natalizia portare in tavola il brodo con i ravioli, e naturalmente preparare un ottimo risotto per Santo Stefano col brodo che avanza; ovviamente il cappone va lessato la vigilia. Per quanto riguarda la presentazione, affettarlo senza rompere le fette di ripieno è un'operazione delicata e dovrebbe essere fatta ad arte rigorosamente dal capofamiglia, quindi è sconsigliabile farlo direttamente in tavola: di solito si porta in trionfo il volatile per sollevare gli applausi degli ospiti ma poi lo si rispedisce subito in cucina a subire il taglio tattico. Fondamentale, poi, sarà portare in tavola anche dell'ottima mostarda cremonese che si abbina in maniera egregia sia alle carni sia al ripieno(e tramortisce le suocere all'occasione, sempre se la si è scelta ben piccante).
Il giorno di Santo Stefano usanza vuole che venga servita un'insalata col cappone avanzato: tradizionalmente si aggiungono noci, sedano, mele renette e formaggio tenero (una buona toma lombarda o piemontese sarà perfetta) e la si condisce con un'emulsione leggera a base di maionese e senape, alle quali si incorporano olio, succo di limone e volendo yogurt bianco.
Ovviamente la chiamano l'insalata della suocera: chissà poi perché!

Buon Natale!
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