Archivio Storico 2011-2017

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La soepa da scigol

05 Ottobre 2011
Le cipolle ispiratrici della cucina bosina, ma anche della letteratura.
Ci sono dei piatti poveri che più o meno si ritrovano in tutte le culture contadine, con le opportune varianti locali: è il caso della zuppa di cipolle, che chiaramente abbiamo anche noi bosini. Noi la chiamiamo soepa da scigol, e ci teniamo davvero molto a questa nostra ricetta avita, che la leggenda popolare vuole sia corroborante per gli uomini, afrodisiaca per le donne e, dulcis in fundo, anche vermifuga per i bambini (melius abundare quam deficere...).

Ma cosa differenzia la nostra minestra da quella altrui, e in particolare dalle nobili parenti meneghina e parigina? Cominciamo col dire che ogni terra ha le sue cipolle e per fare una zuppa coi fiocchi occorrono proprio quelle e non altre. In genere le scigol (italianizzato ormai spesso in scigulle) ideali per la minestra sono quelle bionde, che sono anche le più digeribili; c'è però una varietà di rossa coltivata a Casbeno - un'oasi bucolica a ridosso del lago di Varese che produce certe verdure spettacolari - considerata, dalle mie parti, il non plus ultra proprio per finire nella zuppiera. Regala cipolle dolci e grosse, decisamente grosse, tonde e schiacciate ai poli; per farne un chilo non ne occorrono più di quattro, cinque al massimo, sufficienti per sei piatti abbondanti.

Vanno affettate più sottilmente possibile: è noto che - per fortuna! - con le cipolle rosse si piange di meno (sempre che non vi affettiate un dito nel frattempo). Poi, per addolcire i frutti, bisogna scioglierli in un generoso pezzo di burro (buter), che avrà fra gli altri meriti quello di alleggerire il gusto delle cipolle. Copriamo, ogni tanto rimestando: devono appassire dolcemente, operazione indispensabile perché la zuppa fonda tutti i sapori alla perfezione; è come se il grasso facesse da ponte fra il brodo e la cipolla. A proposito, le scuole sul brodo sono differenti: chi lo usa di verdure, chi di pollo. Io appartengo a questa secondo pensiero: rigorosamente, per me, brodo di cosce di pollo, profumato di chiodi di garofano e qualche verdurina di stagione, un passepartout che uso anche per tutti i risotti di verdure e di frutta (noi bosini siamo di gusti ruspanti).

A questo punto, e solo a questo punto, va unito il brodo. Per un chilo di cipolle ce ne vogliono dai tre ai quattro litri: dipende quanto ci piace diluita la zuppa, che deve cuocere non meno di un'ora dall'ebollizione. C'è chi, in vena di raffinatezza, fa cadere dal colino un cucchiaio di farina per ispessirla, o anche chi tosta la farina direttamente nel burro come fosse una specie di base besciamella: onestamente non mi sento di dire che vada per la maggiore. Indispensabile, invece, il formaggio: una buona toma nostrana, vaccina o meglio ancora caprina, anche se ci sono versioni in cui è sostituita dal più versatile grana. L'ideale sarebbe farlo gratinare direttamente nella zuppa su fette di pane giallo (pan giald); volendo si può servire il pane col formaggio a parte, fatto dorare qualche minuto in forno e precedentemente strofinato con uno spicchio d'aglio. Oggi il pane bosino più comune da trovare è il cosiddetto pan frances, un pane tradizionale allungato, di farina bianca di grano tenero (da qui probabilmente l'appellativo nobilitante di 'francese'), che si presta molto bene a questo tipo di preparazioni: si dovrebbe preferire quello raffermo.

Una curiosità: le cipolle nostrane, protagoniste di svariate preparazioni (ad esempio, la frittata), sono state anche celebrate in letteratura. Un esempio fra tutti è un classico della narrativa infantile, le rodariane 'Avventure di Cipollino'. Gianni Rodari era di Gavirate, cittadina sul lago di Varese, e tutti i giorni, sceso dal tram alla fermata di Uponne, per arrivare alla scuola di Ranco (sul Lago Maggiore) dove insegnava doveva percorrere in bicicletta campi, boschi e vigneti: facile pensare che le colture nostrane fossero fra le ispiratrici delle sue pagine e delle sue lezioni. E forse anche lui, chissà, avrà chiamato affettuosamente col termine di 'scigulin', cipollina, i suoi alunni, come si fa ancor oggi a Varese, anche se ormai lo si sente dire quasi solamente dagli anziani.
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