Fa caldo, anche a Varese. Ma proprio caldo, però, non un caldo così così: un caldo tropicale, di quelli che fatichi a respirare, altro che mettersi ai fornelli. Sarà che ci sono poco abituata, a questo clima, ma mi è passato persino l'appetito... avrei voglia di sedermi tutte le sere in pizzeria, possibilmente dopo le dieci di sera, o di nutrirmi di gelati e via andare. Invece, ciao pepp, bisogna cucinare, visto che sono madre di famiglia, e che famiglia! Bisogna rintanare le idee di sciopero e coltivarle giusto nell'immaginazione, al massimo sulla tastiera. Mi consolo pensando di non essere probabilmente l'unica a desiderare una vacanza in frigorifero, e all'idea che magari qualcuno sta pure sorridendo davanti a queste mie righe. Il riso rinfresca, si sa...
Succede. Dicono che da settimana prossima il fresco, che è stato il leit motiv di tutta la prima pagina dell'estate, tornerà a ristorarci, per un degno finale di stagione: lo sto aspettando al varco. Nel frattempo, essendo il mio compito su questo magazine, vi dovrei scrivere di qualche piatto tipico estivo tipicamente bosino. Mi scervello, mi arrovello, mi arrostisco (sì, forse è il termine più calzante) e mi scuso pure, ma a me oltre alla pasta e fagioli che ho preparato settimana scorsa, e che è stata l'unica cosa che ho fatto letteralmente resuscitare tutta la famiglia cotta da una giornata lacustre a quaranta gradi all'ombra, in questo momento non viene in mente niente...
Faceva già caldo anche quel mattino, ore otto all'incirca, in cui l'ho preparata: così caldo che i fagioli mi guardavano già pronti per germogliare. Vabbè, li ho salvati in extremis. La pasta e fagioli va messa su con un certo anticipo, perché è uno di quei piatti lenti che più cuoce e, giustamente, meglio è. La mia nonna la preparava al pomeriggio, proprio all'ora della canicola, perché di pentole subito dopo la guerra non ne giravano molte, anche se lei era stata una ristoratrice, per cui la stessa pentola doveva cucinare il pranzo e pure la cena. Lei iniziava dal battuto sull'asse concavo, riducendo in poltiglia un generoso pezzo di lardo assieme all'aglio, alla salvia e al rosmarino, gli odori che nella cucina della nonna non mancavano mai. Un filo d'olio in pentola, il battuto e giù sedano, cipolla e carote tritati a sfrigolare insieme. Poi aggiungeva i fagioli, che faceva sgranare ai bambini tornati in estate dal collegio – la mia nonna era vedova, o meglio il nonno era disperso in Russia, per cui d'inverno, mentre lei lavorava, mia madre e mia zia si trovavano in un collegio a Cesenatico e lo zio più piccolo dai Martinitt. I fagioli erano di quelli belli freschi, i borlotti, o borlocc – come li pronunciava lei che era originaria della bassa bergamasca -, quelli che maturano in questa stagione, e che al supermercato (io non ho più la fortuna di avere un orto) costano, nonostante la stagione, una fortuna, chissà poi perché: forse per il fatto che noi siamo in sette e ne ho dovute comperare tre reti da mezzo chilo l'una...
Dicevo (e me lo racconta mia madre), la mia nonna faceva sgranare i fagioli dai bambini, esattamente come faccio io adesso – non sembra ma è un lavoretto un po' noioso, di quelli che però appassionano i bambini, specie se poi si tiene da parte una decina di fagioli che poi si semina e se ne segue l'avventura di giorno in giorno -, li sciacquava e li buttava in pentola. Aggiungeva acqua sino a coprire tutti i fagioli almeno di un paio di dita, mezzo cucchiaio di sale grosso, qualche verdura a pezzetti (una zucchina, un pomodoro per colorare, una patata per fare spessore) e una bella crosta di grana, incoperchiava lasciando uno spiffero e faceva bollire dolcemente per un paio d'ore, sino a far disfare i fagioli.
La crosta di grana era un ingrediente fondamentale, senza il quale minestre e risotti non hanno, tanto per me quanto allora per la nonna, nessun sapore: altro che dado. Mia madre, invece, non l'ho mai vista usare le croste di grana in cottura. Forse la sua generazione di milanesi rampanti del dopoguerra – oggi arrivati abbondantemente alla settantina – rifiutava a priori l'idea del tocco rustico, così come si vergognava di parlare in dialetto e dal droghiere chiedeva col naso arricciato un etto di butirro. La mia generazione, invece, di quarantenni depurati a forza dalle proprie radici, è tornata ad entrambe le cose con il medesimo orgoglio. E a dimostrazione dell'avvenuto sdoganamento, da parte delle nuove generazioni, delle croste di grana vi porterò ben due prove. La prima, tangibile: se andate in un qualsiasi ipermercato del varesotto o del milanese – ad esempio, il Gigante, ci sono stata giusto l'altroieri - troverete in bella vista delle voluminose confezioni di croste di grana a prezzi più che popolari (ci mancherebbe altro). La seconda prova è addirittura una santificazione letteraria: avete presente il popolare topo-giornalista e investigatore Geronimo Stilton, l'eroe dei ragazzini che si ritrova sempre fra le zampe un'indagine su un qualche caso, mettiamola così, caseario? Bene, già nel 2008 Elisabetta Dami – la fecondissima autrice milanese figlia del fondatore della Dami – aveva pubblicato, nella collana dei Mini Misteri, un titolo eloquente: 'Il ladro di croste'. Geronimo, appassionato collezionista di croste di formaggio, è invitato al raduno annuale dei collezionisti dell'isola di Topazia: nel bel mezzo dell'esposizione, che conta la presenza di rari pezzi d'epoca e di illustri studiosi di cristologia comparata (!), viene rubata una preziosissima crosta appartenuta al famoso gentiltopo Giacomo Codanova (che, si sa, oltre al resto era pure un appassionato frequentatore di osterie e ottima forchetta). Geronimo, sul principio ingiustamente accusato del furto, riuscirà a smascherare la bellissima ladra. (Sì, insomma, mi mancava il consiglio letterario del mese, e fra le righe e complice il caldo che fa girare in maniera stravagante i neuroni, ve lo sto dando in maniera, ecco, un po' originale...)
Ma riprendiamo, sperando di farcela, il filo del discorso. Ah sì, ecco, la crosta di grana. Naturalmente, è la sorpresa che capita in un piatto solo, e chi la trova è davvero fortunato. Di solito la mia nonna la divideva in tre pezzi, per non far litigare i bambini; io ne ho cinque, di figli, e per me sarebbe un po' più complicato, così di croste ce ne metto due, e spero – invano - che si spappolino in pezzettini in cottura (tanto poi qui un motivo di piccolo litigio lo si troverebbe comunque). E veniamo finalmente alla conclusione. La zuppa deve riposare per due o tre ore: per questo va preparata con un buon anticipo. C'è chi frulla un poco i fagioli prima di servirla, io non lo faccio, mi piace così e anche a mio marito ed ai bambini. Solo, ecco, la pasta la porto in tavola separatamente – faccio lessare una confezione di ditaloni rigati – perché, al solito, c'è chi ne vuole tanta, chi ne vuole poca, chi inizia con quella e basta e solo dopo vuole il rabbocco di fagioli... Per non scontentare nessuno, e per non fare impazzire la mamma che giustamente ha desiderio di sedersi a mangiare come e con tutti gli altri, in una casa si prole numerosa si fa così. Si porta tutto in tavola, olio buono e pepe compresi – sì, confesso di avere in casa un olio del Garda ma solo per condire a crudo le pietanze migliori: mia nonna, poverina, non l'avrà certo fatto– e si mangia tutti in allegria. E di solito ci si contende la pasta e fagioli sino all'ultimo mestolo. Se poi si vuole strafare, nell'attesa che sia pronta la pasta, prima di riempire i piatti con la minestra, si affetta un bel salame nostrano. E, rigorosamente, lo si finisce. Proprio come faceva la mia nonna. Caldo o non caldo, in quel di Lorenteggio negli anni Cinquanta il salame con la pasta e fagioli non mancava proprio mai.
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La pasta e fagioli, o dello sdoganamento delle croste di grana
La cucina del caldo e della tradizione
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Papille gustative