“Brassadela ” (stranamente con due “s”, in spregio alla penuria di doppie tipica dell'idioma veneto) è un termine di difficile traduzione, ma sta ad indicare un tipico dolce veronese del periodo pasquale.
Cercando di italianizzare il nome, arriviamo a visualizzare più o meno una piccola ciambella, una focaccia con il buco, una sorta di “braccialetto”, volendo andare per assonanze.
Alcuni le chiamano “brassadele broè”, ma questa seconda versione prevede la scottatura in acqua bollente prima della cottura in forno, atteso che il termine “broà”, voce del verbo “broàr”, significa proprio “scottare con acqua bollente”.
In entrambi i casi si tratta di un dolce pasquale tipico della zona collinare di Verona (brassadele) e di Vicenza (broadei).
Non sono riuscita, purtroppo, a reperire molte notizie sull'origine storica di questo dolce che a Verona si prepara, appunto, nel periodo pasquale, ma mi piace molto ricordarlo, oltre che per la sua particolare bontà, anche perchè è legato ai miei ricordi di bambina.
A quei tempi, quando la nonna Celinia viveva con noi, era lei l'artefice principale di una febbrile produzione di tali ciambelline, destinate alla famiglia ma anche ad amici e parenti ed, in sostanza, a tutto il paese, che gliele commissionava con largo anticipo e con grandi aspettative data la sua rinomata fama di cuoca e la sua accertata abilità nel prepararle (sarà anche per il grande affetto ed il ricordo che mi lega a lei, ma di così buone non ne ho più assaggiate..).
Per una riuscita ottimale dei dolci, ricordo che li portavamo, insieme, a cuocere al forno, dal panettiere, lei nel suo grembiulone, io in un piccolo ma per me preziosissimo canovaccio, che mi inorgogliva da morire.
Dopodichè, per evitare che venisse dilapidata anche la fornitura riservata ai vari committenti, la nonna li nascondeva ovunque per la casa, nei rifugi più impensabili e, molto spesso, li dimenticava lì...
Era proprio grazie a queste distrazioni che - anche molto tempo dopo la Pasqua – con un po' di fortuna potevamo incappare in interi e preziosi sacchetti di dolci brassadele, ancora fragranti, fatalmente sfuggite alle grinfie dei destinatari.
Passiamo alla ricetta, trovata negli appunti che la nonna dettava a me bambina...
Ingredienti:
6 uova
450 grammi di zucchero
2 etti di burro o metà di margarina (pare che in passato, talvolta, venisse utilizzato lo strutto)
1 bustina di lievito
1 pizzico di sale
1 limone grattugiato
farina q.b.
Preparazione:
Disporre sulla spianatoia la farina a fontana, aggiungere le uova, lo zucchero, il burro ammorbidito, il lievito, la buccia del limone grattugiata ed il sale. Alcuni versano anche un po' di grappa.
Impastare con le mani e lavorare a lungo e vigorosamente l’impasto, che dovrà risultare gonfio d’aria, lucido in superficie e piuttosto consistente.
Dividerlo in tanti pezzi ed arrotolarli uno ad uno formando con le mani dei filoncini spessi circa un dito che andranno, a loro volta, uniti in modo da dare la forma di piccole ciambelle, di “braccialetti” appunto, e, quindi, perfettamente tondi!
E proprio perchè vengono chiusi a cerchio, prima della cottura, sembrano quasi tanti abbracci; pare che da questa caratteristica sia dovuto il nome del dolce nella parlata veneta.
Cuocere in forno caldo finchè non raggiungeranno un colore dorato.
Ovviamente, vanno accompagnate ad un vino dolce.
E se con i cantucci ci mettiamo ad occhi chiusi il Vin Santo, perchè non proporre (con altrettanta istintività) con le brassadele veronesi un campanilista Recioto di Soave?
Se, invece, parliamo della versione vicentina (onore ai cugini...) potremmo affidarci ad una vera e propria chicca enologica, il Vin Santo di Gambellara, vino antichissimo, prodotto ed ottenuto con il vitigno autoctono Garganega, quasi sempre vinificato in purezza.
E' carino ricordare almeno una curiosità in merito a tale singolare prodotto, che richiederebbe – invero - ben altri approfondimenti.
Non è chiarissima la ragione del nome “Santo”, essendo diverse le ipotesi sulla sua origine: la più accreditata sembra quella fiorentina, con un paio di varianti.
Durante il Concilio di Firenze del 1439, il Cardinale bizantino Giovanni Bessarione, mentre stava sorseggiando il vin pretto (vino locale di cui si è persa, ahimè, traccia), avrebbe esclamato: ''Questo è il vino di Xantos!'', forse riferendosi ad un simile vino passito greco (fatto con uva sultanina pressata) proveniente da Santorini.
I suoi commensali, confondendo la parola ''Xantos'' con 'Santos', credettero che il patriarca avesse scoperto nel vino qualità tali da potersi definire ''sante''.
In ogni caso, da quel momento il vin pretto fu chiamato Vin Santo.
Secondo un' altra versione, egli avrebbe usato la parola Xanthos (in greco ξάνθος significa giallo dorato) parlando proprio del colore del vino.
Comunque sia, le brassedele, come gli abbracci, innaffiate o intinte nel vino dolce, scaldano mente e cuore!
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