C’è un piatto veloce e poco impegnativo che solitamente mi risolve alla grande una cena di mezza settimana, ed è il ris in cagnon, che qui vedete scritto alla meneghina ma che dovete leggere “in cagnun”.
Dovete sapere che il ris in cagnon è uno dei piatti “nazionali” piemontesi; ed è proprio di questi giorni, legati alle celebrazioni del centocinquantesimo dell’Unità d’Italia, la notizia che Camst, azienda impegnata nella ristorazione scolastica del comune di Roma, l’ha inserito nella rosa delle tre specialità piemontesi da far conoscere ed apprezzare agli studenti della capitale, insieme al pollo alla Marengo ed ai funghi trifolati.
Dal punto di vista dell’educazione alimentare è sicuramente un discorso encomiabile, anche se bisogna correggere un poco il tiro per quanto riguarda la collocazione geografica, checché ne dicano i ricettari più frequentati. Il ris in cagnon, infatti, non è solo un piatto piemontese: sarebbe meglio collocarlo in Insubria, ossia quella regione che pressappoco corrisponde all’antico e glorioso ducato di Milano, proprio il territorio in cui arrivò e da cui si diffuse, nell’ultimo quarto del Quattrocento, il riso, sconosciuto prima d’allora a scopo alimentare in Padania. Così, fuoriuscendo dagli attuali limiti regionali, troviamo questa bontà nelle case e nelle trattorie novaresi, vercellesi, biellesi ma anche in quelle varesotte, lodigiane e lariane, declinata in tutte le varianti linguistiche ma anche casearie locali, e naturalmente in quelle milanesi: se non ci credete, sappiate che il grande commediografo secentesco Carlo Maria Maggi l’aveva immortalato nell’Addio di Meneghino al Verzé nel “Barone di Birbanza”, in un elenco di prelibatezze locali a cui il protagonista avrebbe dovuto rinunciare per sempre una volta partito da Milano.
Rintracciare la storia del ris in cagnon (o ris an cagnon, detto alla piemontese) è cosa abbastanza ardita, perché si tratta di una di quelle pietanze della cucina di tutti i giorni che sicuramente non nacquero da studi di grandi cuochi di cucine altolocate. E’, evidentemente, una sapienza antica e rurale che assembla i poveri ingredienti della dispensa per farne dei piatti sostanziosi anche in regime di Quaresima, e non solo. Infatti le “quarantene” di astinenza dalle carni in preparazione alle grandi feste cristiane un tempo erano tre: una prima della Pasqua, una prima di Natale –l’Avvento- e la terza ed ultima prima delle cosiddette Quattro Tempora, anche se poi, variabilmente da diocesi a diocesi, da regione a regione, lungo tutto il corso dell’anno durante la settimana erano stabiliti giorni di magro e altri in cui le carni potevano essere consumate, naturalmente se si aveva la fortuna di avvicinarle. Una toma valligiana o d’alpeggio, qualche pugno di riso, un bel tocco di burro nel quale sfrigolano aglio ed erbe aromatiche ed ecco, con poco o quasi, che si sfamava un’intera famiglia dopo una giornata di intenso lavoro nei campi, senza ricorrere al pesce d’acqua dolce (comunque molto più presente un tempo sulle tavole padane di quanto lo sia oggi), a uova o anche ai volatili da cortile o alla piccola cacciagione (in alcuni casi consentiti anche nei regimi di astinenza, perché non erano bestiame di terra ma di aria, quindi una carne povera, se vogliamo).
Ma cosa significa “ris in cagnon”? Due sono le ipotesi che godono maggiore fortuna, ed entrambe si richiamano alla figura retorica dell’ironia, che trova terreno particolarmente fertile fra la povera gente. La prima lega il nome ad un piatto da cani, cioè da gente particolarmente male in arnese; la seconda, non più poetica, lo fa derivare dai cagnotti, voce lombarda che indica i vermetti grassi che si formano nel cibo guasto (e non solo). Da qui a ricollegarlo al famoso formaggio che cammina da solo, il passo è breve: e c’è infatti chi prepara il ris in cagnon esclusivamente con un gorgonzola particolarmente stagionato. Comunque la mettiamo, al di là dell’appellativo rimane uno dei piatti più rappresentativi di un modo di essere, sincero e caustico al tempo stesso sincero, della campagna padana e di chi la abita.
Ingredienti (è da considerarsi, ovviamente, un piatto unico, anche se queste sono dosi per sei persone: eventualmente voi dimezzatele)
500 g di riso Originario
250 g di toma d’alpeggio
abbondante Grana Padano o Parmigiano (a seconda dei gusti)
150 g di burro, possibilmente di centrifuga
uno spicchio d’aglio, erba salvia, oppure timo ed erba cipollina
pepe, sale
Lessate il riso al dente e lasciate un po’ di acqua di cottura nella pentola.
Nel frattempo sciogliete il burro e portatelo alla nocciola facendovi sfrigolare lo spicchio d’aglio privato dell’anima verde, e ponendo attenzione a che non bruci.
In un capace vassoio da portata distribuite a strati il riso condendolo con grana grattugiato, toma a pezzetti, burro fuso e un poco d’acqua di cottura, terminando con una generosa condita generale. Non mescolate.
Di tome nell’arco alpino e prealpino ce ne sono un’infinità, di burro e di erbe aromatiche pure. Questa è la ragione per cui il ris in cagnon può essere cucinato in un’infinita varietà di modi, persino utilizzando formaggi a pasta molle (taleggio e gorgonzola) a seconda delle situazioni.
Vi lascio con una gustosa ricetta in milanese comparsa nel numero di settembre del 2003 sulla rivista di lingua e cultura milanese “El milanes” (consultabile online all’indirizzo http://www.elmilanes.it/rivistamilanes.pdf)
ON PIATT DE RIS IN CAGNON...
Anca se te gh'hee prèssa, proeuva a fà el ris in cagnon.
A l'è savorii e svèlt de cusinà.
In d'ona pignatta con l'acqua salada in ebollizion,
fà coeus el ris. Fà rosolà in d'ona caldarinna on poo
de aj e ona quèj foeuja de erbasavia in del butter
(che el sia assee per condì i porzion de ris che te
gh'hee de preparà). Quand te gh'avaree scolaa ben el
ris, condissel cont el butter ben cald, e on bel poo de
parmesan (o grana padan) grattaa giò.
Te podaree compagnà el tò piatt cont on bon vin
bianch sècch de l'Oltrepò Paves.
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