Modena è sempre stata terra di vini e di osterie. In città c’era un solo luogo dove non esistevano, cioè piazza Grande. Gli Statuti del 1327, le nostre prime leggi, vietavano infatti la mescita del vino in piazza, con queste (peraltro facilmente comprensibili) parole: “... pro publica utilitate... nullus debeat habere nec tenere aliquam tabernam”. In città le osterie erano sparse un po’ ovunque: sotto i portici di vie poco importanti, in qualche piazzetta, vicino alle “poste” dei cavalli. Il poeta Giosuè Carducci non di rado partiva dalla vicina Bologna per venire a conversare - e non solo a conversare - con alcuni suoi amici professori di liceo modenesi nell’osteria di Grosoli, ubicata sotto il portico di via Saragozza, prima di voltare in via Mascherella. Esistevano, inoltre, tante altre osterie vicino alle mura, dentro e fuori, in prossimità delle porte; quelle esterne, generalmente, erano locande, dove gli avventori potevano trovare tavola e alloggio, in attesa dell’apertura delle porte stesse. Numerose anche lo osterie vicine ai traghetti dei fiumi o ai ponti. Poi, le mitiche osterie del Secchia. Sulle sue rive umide, ai tempi del Ducato di Modena e Reggio, prosperava un antichissimo vitigno, il Lambruscone, spesso confuso con il Lambrusco (a causa del nome molto simile) e da molti preferito a quest’ultimo, come testimonia il notaio Niccolò Caula nelle “Annotazioni sui vini Modenesi” (1752), assicurando “essere la Lambrusca buonissima uva, senza giungere però alla bontà del Lambruscone, che fa vino più gagliardo, pieno e gustoso”. Mentre il Lambrusco è vino da pasto, cioè da stomaco pieno, il Lambruscone è vino da osteria, da allegra compagnia, il vino da bere per il solo gusto di bere e per la gioia del palato; quello preferito dai carrettieri, che “ne facean gran uso a tutte l’ore e pure a stomaco vuoto, in grazia de la bassissima aciditate”.
Claudio Camola, titolare dell’osteria La Piola, in strada Viazza di Ramo (ex Cave Ramo) a Modena, ancora oggi offre ai suoi clienti “Il Fragolone”, per secoli l’unico vino delle osterie del Secchia, quasi scomparso insieme agli scariolanti che le frequentavano. Un vino a bassa acidità, beverino, che accompagna dolcemente i piatti che Camola, fra una simpatica chiacchiera e l’altra, propone agli avventori della sua locanda: non quelli della tradizione grassa e opulenta, “del maiale”, ma della cucina semplice, saggia e leggera della perduta civiltà contadina.
“Profumi e sapori dimenticati”, come diceva Cesare Zavattini.
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