Sull'origine di questa minestra modenese e bolognese esistono alcune leggende. La più conosciuta narra di un oste voyeur che, spiando dal buco della serratura le fattezze di un’incantevole donna ospite della sua locanda (qualcuno azzarda persino Venere in convegno d’amore con Marte e Bacco), rimase così colpito dalla bellezza del suo ombelico che volle riprodurlo in cucina, creando il tortellino.
Modenesi e bolognesi, oltre alla celeberrima Secchia Rapita, si contesero con pervicacia e per lungo tempo anche la paternità dei tortellini. Il poeta modenese Alessandro Tassoni, quattro secoli fa, citando l’oste “ch’era guercio e bolognese”, individuò l’origine di uno dei più famosi piatti italiani in Castelfranco Emilia, tranquilla località a metà via tra la città di San Geminiano e quella di San Petronio; in provincia di Modena ma storicamente e culturalmente legata a Bologna. È una zona di confine, appartenuta alla provincia di Bologna fino al 1929 e tuttora facente parte dell’Arcidiocesi del capoluogo emiliano, i cui abitanti parlano un dialetto “quasi” bolognese con un’inflessione “abbastanza” modenese, ancora oggi orgogliosamente divisi tra petroniani e geminiani.
La genesi del tortellino, come quella di altre paste ripiene (cappelletto, raviolo, agnolotto, ad esempio), è in realtà riconducibile alla necessità di riciclare gli avanzi di carne. In ambiente povero, per secoli e fino a pochi decenni fa, non si buttava via proprio nulla.
Per chi, come me, a Modena è nato e vissuto, i turtlèin sono un piatto speciale, con una forte valenza identitaria e affettiva, indissolubilmente legati a determinate ricorrenze religiose (Natale e festa del Santo Patrono, innanzitutto) e ai ricordi d’infanzia; quando le mamme e le nonne, con un movimento delle dita magico e repentino, ripiegavano e attorcigliavano la pasta dando origine al tortellino, che noi bambini tanto amavamo mangiare anche crudo, appena fatto. Se agli uomini, infatti, erano assegnati compiti meramente ausiliari, i monelli (bambini) erano spesso coinvolti dalle rezdóre (le massaie) nella preparazione della pasta con la scusa di dare una mano; in realtà, finivano spesso per paciughèr, cioè per fare infantili pasticci con la pasta sfoglia.
Sfoglia di farina e uova con un ripieno preparato con lonza di maiale, prosciutto di Modena, mortadella di Bologna, parmigiano-reggiano, uova, noce moscata. Il tutto cotto e mangiato in un buon brodo di cappone, stando ben attenti - questo è il segreto delle nostre rezdóre - a fèr padìr i turtlèin, cioè a far riposare i tortellini per circa cinque minuti dopo aver spento il fuoco, in modo tale che il calore del brodo prolunghi ancora la cottura e li renda più teneri e saporiti.
Non cercate, cari lettori, “la ricetta” dei tortellini, non esiste. Esiste, invece, una ricetta diversa per ogni famiglia: ogni “pianerottolo” ha la sua, perché il mix degli ingredienti, pur essendo quelli standard sopra elencati, varia infinite volte.
I puristi sostengono la possibilità di gustare i tortellini solo in brodo di cappone. Ricordo ancora quando, nel corso di una cena, un incauto commensale si rivolse al mio amico Sandro Bellei (famoso giornalista e scrittore, la massima autorità in materia di enogastronomia modenese) manifestando la propria curiosità di assaggiare i tortellini alla panna. La risposta di Sandro, alzate le mani quasi come per voler erigere tra sé ed il suo interlocutore un’immaginaria barriera, fu:«Sacrilegio!».
Se in Emilia la corrente dei puristi (alla quale m’iscrivo anch’io) è quella maggioritaria, ne esiste una minoritaria - altrettanto convinta e grintosa - che propugna, oltre ai tortellini alla panna, anche altre varianti sul tema.
I tortellini alla panna vantavano un grande sostenitore: Enzo Ferrari. Spesso invitava i propri ospiti a pranzare al “Cavallino”, il ristorante posto dall’altra parte della strada rispetto all’entrata principale della mitica fabbrica di Maranello. Alcuni anni fa, Michele Alboreto, pilota della Rossa negli anni Ottanta, nel corso di un’intervista ricordò i pranzi al “Cavallino” in compagnia dell’Ingegnere. Dal primo piatto - ovviamente tortellini alla panna - al nocino finale. Un lauto pranzo modenese, al quale Alboreto non osava sottrarsi; neppure quando, dopo poche ore, doveva testare le monoposto sull’attigua pista di Fiorano.
Tra gli altri, voglio ricordare i tortellini verdi “La Bertola”, proposti dall’omonimo locale di Casinalbo, alle porte di Modena. Pasta verde, rigorosamente fatti a mano (i tortellini, in generale, non possono che essere fatti a mano: voglio sottolinearlo, anche se si tratta di un’ovvietà), ripieni di pesto di carne tradizionale e con un delicato ed equilibrato ragù di carne e funghi.
Come ho scritto poco fa, non esiste “la ricetta” del tortellino. Tuttavia, ai curiosi e ai neofiti mi permetto di segnalare il sito de “La San Nicola” (www.lasannicola.it), l’associazione di volontariato che promuove il Tortellino Tradizionale di Castelfranco Emilia: lì troverete un’ottima ricetta per preparare il brodo, la pasta sfoglia e il ripieno.
Buon appetito!
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