“Errare humanum est, perseverare autem diabolicum”. Pare fosse Sant’Agostino a parlare, chissà se anche lui era andato in un locale, si era trovato male e – per confutare il suo giudizio - c’era tornato, riuscendo a trovarsi ancora peggio, facendosi poi odiare non da uno ma da ben due amici che aveva avuto la briga di portare con sé. No, forse no, non credo che Sant’Agostino fosse avvezzo all’enogastronomia romana, tantomeno a sacrificarsi per capire se un Risto-bistro-bar fosse proprio il locale tutto fuffa che sembrava.
Io, invece, ho errato e ne chiedo venia. Ho errato la prima volta, spinta dalla bellezza di quel magnifico luogo che è il Baccano, a due passi da Fontana di Trevi, in pieno centro storico, un locale imponente, tutto ferro e legno scuro, scoperto per caso durante una passeggiata in una tranquilla Domenica mattina, che m’ha fulminata con le sue atmosfere da primi del Novecento, con la sua aria un po’ fumosa stile speakeasy americano e dalle cui grandi vetrine mi han dovuto staccare a forza, perché i miei occhi erano lì a cercar di rubare ogni particolare dei suoi arredi, delle sue pareti, delle sue credenze a vista. Mi sono allontanata, al primo incontro, con la promessa di tornare.
E difatti son tornata, nel pomeriggio del mio compleanno, e credo che modo più subdolo per sabotare una giornata ancora non sia stato inventato. Ma non parca della delusione subita, appena uscita da lì – come l’amante sedotta e improvvisamente abbandonata – ho cercato di trovar scuse all’accaduto, non volendo ammettere che il mio Baccano non fosse il principe dei locali ma solo il più gaglioffo dei luoghi dove passare un pomeriggio. Da qui la decisione di ritornare ancora, perché parafrasando Battisti “chi hai visto non è, non è il Baccano”. O forse sì.
Son qui ora a tirare le somme dei pomeriggi passati nel bellissimo locale, così simile al Balthazar di New York da esserne la copia in toto, arredi, menù, sito web, forse omaggio, forse sfacciata scopiazzatura. Un colpo di spugna sui ricordi, sull’arredo, le credenze, l’atmosfera e via, lucida e presente, riportata alla realtà nel più crudele dei modi, grazie alla sbadataggine dei camerieri che due volte su due si sbagliano e per il tè delle cinque ti portano tutti i menù tranne quello dei tè e dei dolci, grazie alla loro faccia crucciata non in stile “oggi ho problemi miei ma giuro che solitamente sono un miele d’uomo” bensì “ciao, sono simpatico come un calcio sullo stinco oggi, domani e ogni giorno che Dio mi manderà ancora da vivere”, grazie alla furberia sciocca della cameriera che ti serve dei biscottini che sanno spudoratamente di vecchio (due volte su due) e ti avverte “questi son da inzuppare nel tè” sia mai che sgranocchiandoli ti accorgessi che il pacco da cui provengono risale ai tempi delle feste orgiastiche di Bacco.
E che dire poi dei dolci serviti? Quattro differenti proposte, per non lasciar nulla al caso, perché non si può certo scrivere senza saper di cosa.
Si parte dal Tortino fondente di cioccolato Valrhona con Salsa ai frutti rossi, una proposta che promette qualcosa di più del solito conosciutissimo tortino al cioccolato, con uno strato più che abbondante di zucchero a velo a ricoprirlo e dove la salsa ai frutti rossi altro non è che lo schizzo zigzagante che attraversa il piattino, ed io, sciocca, che l’avevo scambiata per una semplice decorazione del piatto. E che dire della Crème Brulèe ai frutti di bosco, una crema al limone deliziosa, certo lontana dal classico sapore che una Crème Brulèe dovrebbe avere ma tanto fresca, tanto, quanto lo è la sfoglia di zucchero caramellato, evidentemente non bruciato un momento prima di esser servita e dove i frutti di bosco del nome paiono più una simpatica decorazione che un completamento alla ricetta.
Nota positiva il CheeseCake, nonostante le sue dimensioni ridotte (diciamo pure ridottissime) buono, ma così buono che quasi quasi faceva rimpiangere di non aver da spendere 16 euro per poterne mangiare due…
Infine il Tiramisù, un tronco di piramide con un 20% di biscotti inzuppati nel caffè sormontati da un buon 80% di crema al mascarpone, ricoperto da un generoso strato di cacao amaro, che alla prima cucchiaiata vede bene di occluderti le vie respiratorie e costringerti a tossire nel tentativo di far pace con l’aria. Se non pensassi che è improbabile sarei spinta a immaginare le cucine del Baccano come una piccola fabbrica di Willy Wonka con montagne di zucchero a velo e sacchi di cacao amaro dove immergere ogni dolce prima di farlo uscire in sala. Dulcis in fundo il bere, per accompagnare i dolci meglio scegliere tra la selezione di infusi, té e tisane della rinomata “La via del Tè” di Firenze perché a chiedere un centrifugato di ananas si rischia di far indignare il ragazzo al bancone, che davanti al frutto esotico da mondare sbuffa e impreca, finendo per servirti, in ritardo, un succo caldo ed eccessivamente schiumoso.
Ma al Baccano non amano contraddirsi, per cui se iniziano male non possono che finir peggio, fedeli a una linea invisibile di pensiero che li guida verso l’antipatia disarmante e vede il suo culmine nella richiesta dello scontrino, che latita per ben 24 minuti e ti costringe ad alzarti al 25esimo, cercando di richiamare l’attenzione della disinteressata cassiera, evidentemente più impegnata a far accomodare i nuovi avventori giapponesi la tuo posto che a far pagare te, consumatrice in uscita.