In un momento storico come quello che stiamo attraversando, in cui non solo il nostro Paese, ma tutti i Paesi della Comunità Europea, si trovano costretti ad applicare pesanti provvedimenti per far quadrare i bilanci e portare le nazioni fuori da questo periodo di profonda crisi non solo economica, ma anche sociale e politica, è una triste realtà che numerose aziende siano costrette a chiudere.
Quando però la chiusura di un’azienda è provocata non solo da una crisi globale, che ne giustifica quasi il fallimento assieme a quello di molte altre, ma anche e soprattutto dai calcoli e dagli interessi di chi si preoccupa dei bilanci prima che della vita delle persone, anche quando le due cose potrebbero andare di pari passo, è impossibile non indignarsi e non urlare il proprio disappunto.
E’ il caso della Centrale del Latte di Genova, da anni in lotta per mantenere il proprio ruolo all’interno della vita economica del capoluogo ligure.
La Centrale del Latte di Genova inizia la propria attività nel 1935, utilizzando e convertendo alla produzione di prodotti caseari gli spazi di una fabbrica di cannoni del 1924.
Inizialmente gestita da una cooperativa di produttori, viene in seguito controllata dalla Gestione Pubblica Municipalizzata (AMLAT), fino al 1992, quando viene rilevata da Parmalat in contemporanea all’acquisto del marchio Oro.
Già qui vengono inferte le prime “mutilazioni” allo stabilimento genovese.
Infatti, quasi tutte le produzioni di valore aggiunto (mozzarelle, formaggi, burro, yogurt e Latte UHT) vengono spostate fuori Genova, mantenendo nel capoluogo ligure solo latte e panna fresca.
Dei 240 dipendenti della municipalizzata soltanto 8 restano con Parmalat, e ne vengono assunti 117, portando quindi lo stabilimento a 125 unità.
Nel 2001 il personale viene nuovamente “ristrutturato” (termine educato per definire i licenziamenti), e lo sforzo del Sindacato consente ai 45 dipendenti dell’area vendite di accedere alla mobilità volontaria o di reinventarsi come agenti di commercio, padroncini o magazzinieri.
Con questa manovra, il numero dei dipendenti diretti viene portato a 87 unità.
Nel 2003, in seguito al fallimento Parmalat, lo stabilimento genovese viene salvato dal decreto Prodi e dalla buona volontà dei lavoratori, che consentono alla Centrale del Latte di proseguire l’attività produttiva e di uscire dal crack. Tuttavia, anche in questo caso pesanti sono le ripercussioni a livello del personale. Infatti, sul globale del personale Parmalat, i 4000 dipendenti in forza nel 2003 scenderanno progressivamente ai 2300 del 2009.
Nel frattempo, nel 2006 inizia a paventarsi un sospetto di volontà dell’Azienda di portare il sito alla chiusura, a causa dell’indifferenza da parte della proprietà nei confronti delle necessità strutturali del sito e dei mancati adeguamenti impiantistici e gestionali richiesti.
La pesante reazione sindacale ed istituzionale (il Sindaco Pericu stesso se ne occupò personalmente) aiutò a fermare l’escalation di manovre per la chiusura dello stabilimento, e Parmalat stanziò 2 milioni di euro per il rifacimento degli impianti.
Tuttavia, nel 2008 si evidenziò nuovamente l’indifferenza da parte della proprietà, che suddividendo i propri stabilimenti tra specializzati (latte fresco, derivati caseari e succhi di frutta) e non specializzati (monoproduzione di latte e panna), stanziò per i siti specializzati un piano di investimenti, mentre ai siti non specializzati garantì solamente un generico sostegno ai marchi locali. Ovviamente, Genova rientrò in questa seconda categoria.
Inizia quindi tra il 2008 e il 2009 il lento ed inesorabile declino dello stabilimento verso un destino sempre più incerto, a causa soprattutto dell’ingresso nel mercato caseario delle cosiddette “Private Label”, che propongono un latte il cui prezzo medio si aggira tra i 0.90 euro e gli 1.25 euro, contro il prezzo medio di 1.70 euro dei marchi locali.
Questa concorrenza sleale, basata principalmente sull’acquisto di materie prime di dubbia provenienza, provoca un crollo dell’indotto dei trasformatori, con perdite medie del 40% sulle vendite.
E’ il periodo in cui Granarolo annuncia la chiusura degli stabilimenti di Novara e Bologna.
Nel 2011 Lactalis acquista l’83% delle azioni Parmalat, ma quella che poteva sembrare una via d’uscita diventa l’inizio di un nuovo incubo, confermato il 22 giugno dall’annuncio di Lactalis di voler chiudere lo stabilimento di Genova.
Perché accade questo?
In testa a tutte le ragioni che possono portare uno stabilimento come la Centrale del Latte di Genova alla chiusura vi sono, sempre, le decisioni sbagliate di pochi individui che ritengono doveroso e legittimo sacrificare le piccole realtà locali in funzione della grande produzione.
La scelta di puntare sulla quantità anziché sulla qualità, decisione di per sé sensata in quanto consente spesso un significativo abbassamento dei prezzi, in questo caso si rivela fallimentare perché i prezzi dei marchi locali vengono “gonfiati” per favorire il finanziamento di un prezzo più competitivo per i marchi nazionali (è il caso del Latte Blu portato ad 1.29 euro).
Tale politica porta quindi i marchi locali ad un crollo delle vendite talmente drastico da causare il progressivo fallimento dei piccoli stabilimenti, che diventano quindi “carne da macello” per lo sviluppo dei grandi marchi.
Quali potrebbero essere le soluzioni?
In primo luogo, puntare sulla qualità ricordandosi che la qualità ha un costo, e che se i prodotti avessero tra loro dei prezzi competitivi, senza eccessi in un verso o nell’altro, la concorrenza si baserebbe sui gusti dei consumatori e non su una corsa al risparmio, garantendo uno spazio sul mercato a tutti i marchi ed una concorrenza più onesta.
Altra strategia da parte delle grandi aziende potrebbe essere la delocalizzazione dei prodotti nelle aziende satellite, evitando così la concentrazione di troppi prodotti in un singolo stabilimento e garantendo maggiori standard produttivi ad ogni produzione. Delocalizzare i prodotti consentirebbe la specializzazione dei singoli stabilimenti, una maggiore autonomia produttiva e, soprattutto nel caso di alcune multinazionali, la creazione di varie “fasce” di produzione autonome che consentirebbero anche lo sviluppo di prodotti a basso costo, permettendo così un ampiamento della rete di vendita senza il “sacrificio” dei prodotti di bandiera, ma senza penalizzare a tutti costi i prodotti minori.
Certo, non è semplice mettersi nei panni di chi deve decidere il destino di un’azienda, ma è troppo semplicistico definire “necessari” dei tagli che incidono non solo sui bilanci, ma anche sulle vite di centinaia di famiglie.
Tamponare gli effetti delle crisi con provvedimenti che non pilotano i cambiamenti del mercato, ma li inseguono, consente solo di rimandare le difficoltà del momento, provocando un effetto domino che porta inevitabilmente a difficoltà maggiori e a decisioni più drastiche.
Puntare invece sulla qualità, su investimenti mirati e su una concorrenza non votata al massacro, ma soprattutto puntare sulle persone e sull’ottimizzazione delle strategie produttive (è il caso dell’esperimento di Piana di Monteverna, che stà dando segnali positivi sul recupero di volumi e quote di mercato), può consentire non solo un rilancio dei siti che ad oggi stanno rischiando, e non si tratta solo della Liguria, la chiusura, ma anche e soprattutto lo sviluppo di un mercato più equilibrato, con standard produttivi più elevati e, nel contempo, prezzi che senza essere “da discount” potrebbero comunque rimanere competitivi, migliorando il rapporto qualità/prezzo a favore del consumatore che, crisi o non crisi, sarebbe senz’altro incentivato all’acquisto di prodotti di qualità certificata.
Ad oggi, l’ultima data di produzione fissata per la Centrale del Latte di Genova è il 31 agosto.
I vertici di Lactalis e Parmalat hanno fatto sapere che per i 63 dipendenti della struttura è previsto un piano di uscita “soft”, in cui molte unità potranno essere ricollocate nelle altre strutture fuori Genova, mentre alcuni dipendenti dell’amministrazione verrebbero inseriti nel nuovo centro di distribuzione sito in Genova Bolzaneto.
Tuttavia, il neoeletto Sindaco Doria e il Presidente Burlando, assieme ai sindacati, sono pronti a dare battaglia.
Infatti, la chiusura della Centrale del Latte di Genova non sarebbe solo una profonda ferita nel già massacrato tessuto dell’industria genovese, ma anche e soprattutto l’ennesima dimostrazione della mancata volontà dei vertici delle grandi aziende di rilanciare la ripresa del nostro Paese.
Perché un Paese dove le industrie non vengono tutelate in favore dei dipendenti, ma chiuse solo nell’ottica degli interessi economici, è un Paese destinato a fallire.
E questo, lo Stato non può permetterlo!
per la foto si ringrazia: www.cittadigenova.com
Si ringrazia Alessandro Traverso, dipendente della Centrale del Latte, per la collaborazione
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