Archivio Storico 2011-2017

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San Giorgio e la panerada

23 Aprile 2011
A Milano il 23 aprile è d’obbligo mangiare il pan meino
Chissà se quest’anno, dato che San Giorgio cade di sabato santo, i milanesi si ricorderanno della panerada. Si tratta di una delle tradizioni più care di Milano: il 23 aprile, infatti, è d’obbligo mangiare il pan meino, o pan de mej che dir si voglia, intinto nella pànera (panna). Anche a Varese è diffusa l’usanza, tant’è vero che per tutto il mese di Aprile le vetrine delle pasticcerie si riempiono dei famosi dischi gialli profumati di sambuco.

Nel giorno di San Giorgio, infatti, si rinnovavano per tradizione i contratti fra mandriani e lattai, e proprio in quel periodo i mandriani salivano agli alpeggi. Le mandrie erano dette “bergamine”, perché la transumanza avveniva nelle valli bergamasche; la via Bergamini di Milano, in zona Statale, quella dei caffè e delle copisterie per intenderci, prende proprio il nome dalle antiche baracche di legno dove stazionavano le vacche che fornivano il latte fresco agli ammalati dell’Ospedale Maggiore (la Cà Granda, oggi appunto sede centrale dell’Università degli Studi di Milano, con le storiche facoltà di lettere e filosofia). Queste stalle di legno furono rimosse dopo le Cinque Giornate del 1848, perché il legno delle stalle era servito per fabbricare le barricate di Milano.

Per festeggiare e solennizzare l’avvenimento, ossia il rinnovo dei contratti, si diffuse l’usanza di consumare il pane di miglio intinto nella panna, originariamente usanza dei mandriani. Verso la fine di aprile, poi, a seconda degli anni, capita che gli ombrelli del sambuco siano già in piena fioritura; da qui l’uso di aromatizzare il pan de mej con la panigada, ossia la spezia tipicamente meneghina ottenuta con i fiori del sambuco essiccati.

C’è però chi sostiene che la tradizione si debba far risalire ad un episodio cruento di storia milanese avvenuto nel 1339, legato alla battaglia di Parabiago, nell’alto milanese.
Il condottiero Luchino Visconti, proclamato in quell’anno signore della Signoria di Milano assieme al fratello Giovanni (che però non regnò mai), si trovò al comando delle milizie viscontee contro i tremila cavalieri scaligeri e veneziani della Compagnia di S. Giorgio. I superstiti, trasformatisi in briganti, e capeggiati da Vione Squilletti, depredavano le campagne milanesi: Luchino Visconti riuscì a fermarli uccidendo il loro capo, cosicché contadini, allevatori e casari furono nuovamente in pace. Per festeggiare l’avvenimento, i casari delle cascine liberate dal gioco dei briganti offrirono ai soldati milanesi panna e pane di miglio. Da allora il sobborgo milanese appena fuori Porta Lodovica si chiama Morivione, a ricordo, appunto, della morte del brigante Vione.

Considerando l’etimologia di questi dolcetti così particolari, ci sarebbe da scrivere un trattato. Limitiamoci a dire che il miglio è uno di quei cereali minuti, tipici dell’alimentazione dell’area padana, che sopperirono alla penuria di grano, più laborioso da coltivare e meno redditizio di altre colture, particolarmente in certi periodi, come l’alto medioevo. Nelle pulmentaria (le minestre di verdure e cereali), nelle polente, nel pane, il miglio era onnipresente; fu sostituito solo dopo molti secoli dal mais, che infatti entrò nell’immaginario collettivo come un suo surrogato, anche molto più redditizio e capace di sfamare in maniera fenomenale. La faccenda è testimoniata a livello linguistico proprio dai dolci che nel nome ricordano il miglio, ma che di fatto sono a base di farina di granturco: le paste di melia o meliga piemontesi, ad esempio, così come il pan de mej milanese (o pan meino), ma, anche, dal nome dello stesso mais in alcune lingue locali (ad esempio, melgù in bergamasco).

Di ricette ne circolano parecchie e ogni casa, giustamente, ha la sua. Ne circolano tante per il web, ma poche o proprio nessuna con il lievito madre, ossia quello che un tempo si adoperava in casa per panificare. Questa è la mia: volendo si può sostituire con la farina di miglio (da comperare nei negozi di alimentazione biologica).
Pan de mej con il lievito madre (semplificando, in gergo internet, LM)

55 g LM
125 g di farina 0
45 g di farina fioretto di mais (o 35 g di miglio)
30 g di burro morbido ma non fuso
80 g di zucchero
un tuorlo
latte tiepido per impastare, pochissimo
panigada per spolverare (cioé fiori di sambuco essiccati)

Dopo aver impastato per bene gli ingredienti, si lasceranno lievitare sino al raddoppio. Si formeranno poi una ventina di piccoli panini che vanno cotti a circa 190 °C in forno statico per una ventina di minuti circa.

Queste, invece, sono le dosi “classiche” della mia amica Eugenia Abbate del blog labelleauberge.blogspot.com, esperta di tradizioni locali..

PAN DE MEJ

150 g di farina di mais
150 g di farina di mais fioretto
200 g di farina bianca
150 g di zucchero
150 g di burro
15 g di lievito di birra
40 g di circa di latte tiepido
un uovo intero e un tuorlo
un pizzico di sale
un cucchiaio di cognac
una bustina di vanillina
tre manciate di fiori di sambuco essiccati (panigada)

In un dito di latte tiepido far sciogliere il lievito di birra insieme ad un cucchiaino di zucchero. Nell'impastatrice mettere le farine mescolate con lo zucchero, aggiungere il latte con il lievito, cominciare ad amalgamare. Sempre mescolando, unire il burro morbido a fiocchetti, le uova, gli aromi e il sale. Per ultimo i fiori di sambuco, amalgamandoli con una spatola. Lasciar riposare l'impasto per un'ora e mezza circa, formare una decina di pagnottine tonde, pennellarle con la chiara d'uovo superstite e spargervi sopra dello zucchero semolato. Si cuociono in forno a 170° per circa 20'. Una volta freddi, i pan de mej si possono spolverare con zucchero a velo. Volendo, per un effetto più decorativo, si possono pennellare le pagnottine con uno sciroppo di acqua e zucchero (2 cucchiai di zucchero ogni bicchiere d'acqua), dopodiché si cospargono di zucchero semolato e altri fiori di sambuco prima di infornare.
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