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Ancora a Cres, alla ricerca dell'olio perduto

02 Luglio 2012
L'oro liquido dell'Istria
Proseguendo poi per questa strada-tratturo, a tratti non più larga di 5 metri, dimensione che invita a pregare e sperare incrociando un camion o un bus, si arriva nella grande piana che annuncia Lussinpiccolo- Mali Losinj, e qui appaiono finalmente le spianate degli olivi, altra fonte di oro liquido dell'isola. Un olio di oliva che affonda radici nei secoli dell'epoca romana.

Famosa la frase di Marziale: "Uncto Corduba laetior Venafro. Histria nec minus absoluta testa" (Cordoba, tu che sei più fertile dell'oleoso Venafro e perfetta quanto l'olio dell'Istria). Probabilmente proprio a questi oli straordinari era riferita la frase. E proprio in un frantoio costiero, nel trasferimento verso il nostro traghetto, abbiamo visitato il più antico frantoio istriano ancora visibile. Entrando pare di sentire ancora l'odore del mulo che lo metteva in movimento, una vasca in marmi lucidi, bianchi, la famosa pietra bianca d'Istria, una ruota molitoria antichissima. Tutto sa di cultura dell'olio, come ci spiega la gentile signora che ci accoglie e dalla quale recupero un olio fruttato medio, dagli amari equilibratissimi, un piccante educato quasi studiato apposta dalla natura isolana - il produttore è un piccolo oliandolo di Cres - per accompagnare pesci delicati.

La carta d'identità varietale ha nomi antichi: la bianchera, la carbonazza, la cosiddetta Buza e poi Oblica e Levanska. Un blend antico.

L’olivo esiste in questi territori fin dall’epoca preromana, come riportato da Marziale, Strabone e Pomponio Mela: furono probabilmente coloni fenici (i Focesi fondatori di Marsiglia) e greci (probabilmente Siracusani) ad introdurre, oltre all’olivo, anche l’insieme delle conoscenze tecniche ed agronomiche. I Romani, già all’epoca dell’Impero, si accorsero della naturale predisposizione di questi territori e della condiscendenza del clima per la produzione dell’olio e per la coltivazione dell’olivo, già presente su tutta l’area nordorientale dell’Adriatico, dalle isole del Quarnero all’Istria fino ai dirupi carsici del comprensorio muggesano-triestino e del suo entroterra marnoso-arenaceo. Decisero perciò di ampliare la sua diffusione in modo da renderla una coltivazione da reddito legata principalmente ad un florido commercio organizzato con i popoli che abitavano le sponde del Danubio.

Ma il racconto della signora del frantoio avanza e diventa interessantissimo. Con l’inizio dell’ultimo secolo l’olivicoltura non subì significative variazioni fino alla durissima gelata del 1929. Dal catasto agrario della provincia di Trieste (compartimento della Venezia Giulia e Zara) dell’anno 1929 erano conosciute due qualità principali: belice (Bianchera) e cernice (olive nere) e risultava che a Trieste fossero coltivati ad olivo 94 ettari nella zona agraria XVI (Muggia e S. Dorligo), di cui 77 nel muggesano e 17 a S. Dorligo.

Anche la zona costiera era ampiamente coltivata ad olivo, un quadro caratteristico era rappresentato dalle rigogliose piantagioni che abbellivano la sponda meridionale della ferrovia da Aurisina fino a Barcola. Ma in quell’anno cause concomitanti ridussero drasticamente la realtà olivicola locale. Le abbondanti nevicate accompagnate da un repentino abbassamento della temperatura e da forte vento di bora distrussero completamente la parte epigea degli olivi. Inoltre le ordinanze dell’allora regime fascista, nonché la stessa necessità di legna da ardere, obbligarono al taglio del legno ed anche all’estirpazione del ciocco, precludendo così la naturale riproduzione dai polloni.
Dal porto di Trieste imbarcazioni completamente cariche di legno di ulivo da ardere salparono per varie destinazioni in Italia. I tronchi di ulivo vennero anche utilizzati per la produzione del carbon fossile.

Negli anni ‘30, per compensare la grave moria di piante, furono introdotte delle nuove varietà da innesto, soprattutto le cultivar Pendolino e Frantoio, per testarne la resistenza al freddo. Ma purtroppo l’intenzione di rinnovare la coltivazione con nuove piantine venne vanificata dallo scoppio della II Guerra Mondiale.

Negli anni a seguire non vi furono significativi investimenti colturali a causa sia dei problemi che si dovevano fronteggiare per la ricostruzione del dopoguerra sia per la complessiva ristrutturazione dell’economia locale con prospettive più favorevolmente rivolte a nuovi insediamenti industriali ed allo sviluppo del terziario. Inoltre nel freddo inverno dell’anno 1956 un’altra grave gelata diede il colpo di grazia alla derelitta olivicoltura.

In quegli anni solamente la caparbietà di alcuni agricoltori, che continuarono a credere in questa coltivazione, nonostante la scarsa capacità remunerativa, ha permesso il mantenimento di un certo patrimonio olivicolo locale di varietà autoctone come Bianchera e Carbona e di usanze locali.
A primavera l’olivo veniva concimato e potato, tradizionalmente le donne decoravano i ramoscelli appena recisi con le immagini dei santi e così addobbati li vendevano la domenica delle Palme sui sagrati delle chiese del Carso.

La raccolta delle olive (u’ljçe) aveva inizio dopo Santa Caterina (25novembre) e generalmente, veniva fatta dai soli componenti della famiglia: non era un lavoro troppo piacevole a causa del freddo e della bora che in quel periodo dell’anno soffiava con particolare intensità. Le olive venivano raccolte con le mani direttamente da terra, qualche volta ci si aiutava con una particolare scala a tre piedi chiamata koblica e messe nella tuorba (baligo), una borsa di stoffa o di tela di sacco che veniva legata intorno alla vita.

I frutti raccolti venivano posti in sacchi o in tinozze e sistemati su di un carro. Portati a casa venivano puliti delle foglie e dalle altre impurità e, per evitare che prendessero delle muffe, adagiati poi sul pavimento della soffitta o del fienile da 10 a 15 giorni, ossia fino al primo turno di spremitura nel torchio.

Un tempo ogni paese aveva il proprio torchio che poteva essere di proprietà di un privato o della comunità. Al torchio lavoravano tre, quattro uomini contemporaneamente, dalle sei della mattina fino alle nove di sera circa, a volte anche fino a notte fonda. Per il lavoro svolto, che era molto faticoso, i lavoratori venivano pagati in contanti, tanto per quintale, oppure con una parte dell’olio ricavato.
Nel torchio le olive venivano pesate, poi rovesciate sulla macina e schiacciate; le macine venivano azionate manualmente da due uomini, da un asino o da un cavallo.

La pasta delle olive veniva poi messa nelle spuorte (appositi sacchi tondi con un buco in mezzo, di canapa o ginestra, in italiano fiscoli). Le spuorte venivano adagiate una sull’altra nella pressa (prjesa): 3 -4 spuorte, un lamarin (piatto d’acciaio), e così via fino a riempire la pressa (circa 150 - 180 kg di pasta d’olivo).

Si iniziava allora la spremitura girando una vite (trta) che comandava la pressa, con l’aiuto di una spranga e anche questa faticosa operazione veniva svolta manualmente.

Dalla pressa il mosto scolava in un contenitore capiente: se il liquido usciva troppo lentamente, veniva di tanto in tanto versata dell’acqua calda per velocizzare lo scorrimento. Dal recipiente di raccolta veniva versato con un mestolo in un paiolo posto su di uno spargert, e messo a bollire per raffinarsi. Più l’olio bolliva, più si raffinava, diventando però anche nello stesso tempo anche più acido, alcuni perciò lo bollivano meno a lungo. Completata questa operazione si raccoglieva l’olio raffinato ed il sedimento (muorklio) veniva ribollito a casa.

Ciò che restava delle olive spremute veniva chiamato nuogle (sansa) e veniva riusato nel torchio per attizzare il fuoco, qualcuno lo portava a casa per darlo come foraggio ai maiali, più spesso, però, era usato come combustibile nel focolare. Le nuogle bruciavano producendo parecchio fumo.
L’olio che durante la spremitura colava dal mestolo e dai vari contenitori nei passaggi successivi, alla fine della spremitura si conservava in un recipiente particolare. Di quest’olio si diceva che fosse per il lupo (za vuka).

Il contadino che aveva le olive in spremitura portava ai lavoratori anche da mangiare: il frustek a metà mattina, il pranzo e poi la juzna nel pomeriggio. Frequentemente veniva preparato del baccalà in bianco o del sedano, e dopo aver riempito il primo paiolo, solitamente, si offrivano delle frittelle (fancli).

L’olio d’oliva si conservava in grandi vasi di pietra in cantina, da dove veniva attinto con un mestolo; da qui il detto “..dalle nostre parti non basta la bottiglia, a casa nostra c’è il mestolo”.
L’olio veniva usato anzitutto per la verdura ed il pesce, per friggere i dolci, si consumava però anche crudo con il pane. Nell’olio si conservava anche il formaggio pecorino, che era considerato un cibo prelibato. Queste notizie le ho tratte da un bellissimo testo: “Civiltà contadina in Istria” pubblicato dal Circolo di Cultura istro-veneta “ISTRIA”

Quando io insisto e dico che l'olio da olive ha nel nostro paese radici profondissime, e l'Istria era Italia, lo ricordo ancora una volta per chi non ricordi, dico che queste vanno dal nord estremo al sud estremo. Noi siamo il vero paese “unto del Signore” e dolce di mieli.
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