Mi ha molto incuriosito la proposta di degustazione del “Pignolo” (Pignul, o Pignol in friulano), vino che ricordavo – ahimè – di aver studiato solo per il singolare nome, che devo ammettere mi evoca spesso una lieve sensazione di fastidio nei confronti di persone che (rispetto alla mia indole, s'intende..) sono portate alla cura maniacale dei particolari, alla ricerca spasmodica della perfezione del dettaglio dimenticando, a mio avviso, l'appagamento derivante dall'insieme..
E' bastato accettare l'invito... e si è aperto un mondo nuovo, affascinante quando sconosciuto.
Intrigante dal punto di vista storico, singolare dal punto di vista puramente enologico.
Il vitigno, a bacca nera, originario del Friuli, è di un autoctono che più autoctono quasi non si può. La sua vera data di nascita viene riportata al 1422, e collocata nell'ambito di un “fagiolo” pedemontano di terra denominato “Colli Orientali del Friuli” (Buttrio, Manzano, Cividale del Friuli, Spessa delle Giudicarie..). Il fulcro attorno al quale ruota il suo mondo è rappresentato dai vigneti dell'Abbazia di Rosazzo, da sempre di proprietà della Curia Arcivescovile di Udine, molto probabilmente già coltivati dai monaci Benedettini.
Bisognerà, però, attendere fino al 1800 circa per poter rinvenire in letteratura note che lo esaltano.
Si tratta di un vino di cui tutti parlavano, ma avvolto completamente dal mistero visto che nessuno lo aveva mai assaggiato. Era quasi completamente scomparso, se non fosse per 6/7 pianticelle rimaste – chissà come – saldamente aggrappate ai muri dell'Abbazia, sopravvissute al tempo ed alla piaga della fillossera (erano su piede franco), ma di resa bassissima, avare ed incostanti e, quindi, poco amate dai contadini che, all'epoca, non potevano permettersi di farsi sedurre da “chicche enologiche” rare quanto improduttive.
Fu grazie all’opera di archeologia realizzata nei primi anni '70 del secolo scorso che queste viti rimaste presso l’Abbazia vennero salvate da sicura estinzione. Grazie, in particolare, alle pressioni esercitate dai Nonino con il Premio Risit d'Aur, nel 1978, il Pignolo fu inserito nell'elenco dei vitigni autorizzati e, quindi, cessò di essere considerato fuorilegge.
Nell'ambito di tale certosino (per non dire pignolo...) ed immane lavoro di recupero si distinsero produttori quali Dorigo e Filiputti che - tra i primi – si fecero cedere qualche tralcio da Monsignor Luigi Nadalutti, al quale il primo era legato da grande amicizia, lo reimpiantarono e ne curarono amorevolmente il processo produttivo.
Da qui, ripartì in maniera diffusa la fiaba, iniziata nella notte dei tempi e prematuramente interrotta .
Con estrema umiltà, come operai indefessi, consapevoli di essere artefici di un' encomiabile opera di recupero del patrimonio ampelografico, i produttori iniziarono un lungo e difficile percorso, premiato nel 1995 con la creazione della Doc Colli Orientali del Friuli Pignolo.
Oggi lo troviamo ancora coltivato nella sua vocazionale zona d’origine, con qualche altro vigneto diffuso qua e là nei paesi circostanti grazie a sparuti ceppi. Difficilissimo da trovare, vino da uva rossa, dal grappolo chiuso, come una pigna appunto, si presta all’uvaggio ma anche all’invecchiamento in purezza e, in questo caso, devono passare almeno 5 anni prima che la vendemmia venga posta sul mercato, ed almeno altri 5 prima che possa iniziare a dare le prime soddisfazioni.
Ne esistono di due tipi: la Pignoletta, a foglia pentalobata, abbondante nella produzione, con grappolo grande, compatto e raspo verde, ed il Prezzemolato, a foglia evidentemente frastagliata, adatto a risultati migliori, con grappolo allungato, spargolo e raspo rosso.
Entrambi hanno una resa incostante, riportando le stesse problematiche abortive del conterraneo Picolit, ed essendo l'acino composto per il 70% da buccia e solo per il 30% da succo.
E' un vino che mantiene a lungo la sua iniziale ritrosia e scontrosità, e lascia trapelare pochissimo di se, sia per quanto riguarda le notizie, sia per quanto riguarda il rinvenimento e le potenzialità espressive. Non per tutti e non da tutti (per fortuna..).
Generalmente di colore rosso rubino intenso dai riflessi violacei, cuore molto cupo, a volte inchiostro, e bordi accesi, con profumi sempre in evoluzione, dai vinosi, ai fruttati, via via fino ai prepotenti terziari (tabacco, cuoio, china, rabarbaro, graffite, polvere da sparo), a volte con leggero appassimento, spesso con legno ben dosato, quindi raffinato, elegante.
Potente nel palato e rotondo nel gusto, è decisamente un vino particolare, chiuso, fitto, contenuto e misterioso, quasi temesse di farsi scoprire, almeno per i primi tempi.
A volte letteralmente “da masticare” per poterlo comprendere appieno.
Nonostante le premesse, rientra nella categoria di quei vini “muscolosi”, apparentemente molto ostici di primo acchito, ma che se si ha la pazienza di saperli aspettare e capire non deludono, non chiudono mai malamente la porta, bensì lasciano entrare nel proprio universo a poco a poco, in maniera calibrata, sapiente ed elegante.
Così si esprimeva, in merito, l'Abate Gio.Batta Michieli nel suo ditirambo "Bacco in Friuli" pubblicato sul finire del XVII.….«Del bel Turro (torrente Torre) sulla sponda.. il buon vin alligna e abbonda..che del dolce Berzamino..ne berrei per poco un tino…e vorrei sempre esser solo…nel ber a tazze piene il buon Pignòlo»..
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