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L’Olio di Sant’Imerio, ossia l’olio del lago di Varese: un grande scoop ad Oliofficina

25 Gennaio 2016

Da una pergamena antecedente l'anno Mille è attestata la presenza di olivicoltura nel varesotto

Olio Officina Food Festival è l’appuntamento milanese intorno alla cultura olearia divenuto ormai una tradizione per gli appassionati del settore. A Palazzo delle Stelline si ritrovano ogni gennaio, da cinque edizioni, migliaia di studiosi, produttori, giornalisti enogastronomici, studenti universitari e semplici appassionati di olio e dintorni.

E’ stato il “papa dell’olio” Luigi Caricato ad ideare la tre giorni interamente dedicata al prezioso alimento. Luigi, il galantuomo del giornalismo gastronomico, ha un garbo professionale, una lungimiranza e un fiuto a trecentosessanta gradi, anche e soprattutto in campo storico. Così sabato mattina, poco più tardi delle nove, dava la sua apostolica benedizione in sala Chagall agli olivicoltori varesini pronti per festeggiare la decima annata della rinnovata avventura olivicola in terra bosina, e affidava a me la moderazione degli incontri mattutini intorno alla storia dell’olivicoltura settentrionale, alla presenza di relatori dall’Università Cattolica e dalle Scienze Gastronomiche di Parma.

Tutto ha inizio sotto Natale, quando accettavo con entusiasmo il suo invito e gli segnalavo che la storia dell’Olio di Sant’Imerio – ossia l’olio del lago di Varese - era arrivata ad un traguardo importante. Non solo perché le prime, preziose bottiglie erano state presentate nel 2006 o perché siamo in odore di De. Co. (dovrebbe arrivare a giorni), ma perché gli ardimentosi olivicoltori sarebbero stati in grado di produrre davanti a tutti un documento eccezionale che testimoniava la presenza nell’alto medioevo di oliveti e olio a Bosto, la castellanza di Varese da cui parte la loro avventura moderna: per la precisione gli avrebbero portato notizie di una pergamena databile tra il 943 e il 950, studiata dal Manaresi.

Luigi ha accettato al volo la sfida. Annunciato in conferenza stampa a metà gennaio lo scoop, è stato letteralmente preso d’assalto dai cronisti di diverse testate nazionali; ma l’Associazione degli olivicoltori ha preferito aspettare il 23, regalando così a lui, innanzitutto, e a me, questa meravigliosa occasione professionale, uno scoop senza pari. Mi avevano infatti eletta come cantastorie ufficiale da quando Luigi lesse di loro due anni orsono nelle Storie di Varese, una rubrica domenicale che avevo su un quotidiano locale; mi chiese di presentarglieli e li inserì nell’Atlante degli oli italiani che stava compilando per la Mondadori.

Immaginatevi la mia emozione di sabato mattina. Uno magari prende il tesserino diciottenne e sta ad aspettare il caso giornalistico con la “c” maiuscola per tutta la vita. Io, che invece l’ho conquistato pochi anni fa proprio con il Cavolo Verde, pur dopo una decennale gavetta fra web e radio, con sei figli, un marito e quattro gatti a carico, mi sono ritrovata a presentare davanti a professori e studenti universitari una tradizione alimentare locale perduta, forse la più bella, forse la più pura perché emersa dagli studi sulle decime che i proprietari terrieri dovevano all’arciprete di Santa Maria del Monte, e un manipolo di sognatori - capitanati dal loro presidente Enrico Marocchi e dallo studioso Santo Cassani - che l’hanno riattualizzata prima ancora di scoprirne le antichissime radici.

Io oggi voglio dedicare questo successo giornalistico personale a voi tutti e in particolare alla mia amica Laura Rangoni, che mi ha valorizzata e sostenuta in tanti momenti, più o meno belli, della mia carriera professionale. Rezdora lei, regiura io, siamo moderne massaie (secondo la bella definizione di Samantha Cornaviera) e scriviamo per un pubblico di nostre simili, riportando chi legge al centro dell’attenzione e facendolo sentire a proprio agio, anche se non ha mai sentito parlare del Manaresi in vita sua, fra un brasato e un giro d’olio buono, un consiglio librario ed una redazione che ci manda articoli da tutte le contrade d’Italia.

 

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