“Ma le femmine cinte di ghirlande,/ coi denti bianchi come il gelsomino,/rideanotra’lvapor de le vivande, /suggean da coppe di smeraldo il vino. /il loro nitido riso giungea grato/ ai cuori, come un verso numeroso./ Stendean le braccia, con un grazioso/ gesto, a mostrare il cùbito rosato;/ e prendean su la mensa i cedri, i fichi,/, e le mandorle, i datteri, le olive./ Ne’l bacio offrian, con belli atti impudichi, la molle polpa su le lor gengive./ «Or mangiate e bevete, e di piacere/ inebriate il vostro cuor mortale; ché da l’ebrezza a Dio l’inno risale,/ grato come l’odor de l’incensiere.»/ diceva Eleabani. (…)” (da La Chimera, Donna Francesca, IX)
E’ innegabile come nella letteratura italiana abbia avuto per secoli successo l’idea che l’alimento dell’amore siano i tormenti dell’animo, in maniera piuttosto contrastante con l’idea che nel Belpaese abbiamo del binomio “due cuori e una forchetta” e in generale con il culto duplice e tipicamente italiano del buon cibo (e del buon bere intrinsecamente associato) e del latino fuoco amoroso.
In netta opposizione all’estasi, eppur sua condizione assoluta, il topos dell’innamorato fremente che si pasce esclusivamente di lacrime e di sospiri nasce in realtà oltralpe, negli stilemi dell’amor cortese teorizzato nel XIII da Andrea Cappellano e si imbeve del mito degli amanti sfortunati che vivono unicamente ristorandosi dei vicendevoli baci: Tristano ed Isotta arriveranno a sopravvivere in una grotta per settimane senza mai mangiare né senza per questo risentirne minimamente a livello fisico. Mito che avrà una fortuna sfacciata per secoli, soppiantando d’un colpo tutta la letteratura erotica precedente, che, con Ovidio e Cantico dei Cantici in testa, aveva strettamente legato l’eros alla dimensione alimentare, introducendo in letteratura la tematica afrodisiaca.
La lirica italiana a cominciare dallo Stilnovo porterà avanti l’immagine dell’amante consunto nelle energie dalle tribolazioni d’amore, dimentico di tutto al di fuori dell’oggetto dei suoi disiri; il petrarchismo, del resto, disincarnando ed interiorizzando all’estremo la vicenda amorosa, escluderà decisamente dagli argomenti della lirica d’amore qualsiasi elemento realistico, non ultimo il tema del cibo, che, scorporato di dignità, viene relegato definitivamente ad un registro umile. Così, sin dagli albori della nostra poesia, il cibo viene assunto nella materia comica, e viene citato nelle rime giocose e burlesche, anche in relazione al sentimento amoroso ma sempre con una certa vena triviale, come se fosse riprovevole per due amanti il mangiare e bere come persone comuni. Il fatto è che gli amanti, in poesia, non sono mai persone comuni, perché l’amore nobilita, eleva dalla quotidianità, e così accennare all’atto del mangiare, o comunque all’oggetto alimentare nudo e crudo è decisamente fuori luogo, inconcepibile nella materia amorosa di un certo spessore.
Non è solo la lirica, del resto, a scotomizzare l’argomento alimentare in ambito tragico. Dante stesso, nella sua impresa mistica della Commedia, per i tre giorni e le tre notti del viaggio non mangia né beve alcunché, nonostante al cibo accenni variamente e per diversi motivi. Ma il vertice giunge con l’episodio del Conte Ugolino, dove l’ellissi narrativa chiude sul sacrificio emblematico dei figli, l’amore per eccellenza che si supera e si fa cibo per un padre evidentemente uscito di senno per il dolore (o almeno così riportano i commentatori).
In prosa, al contrario, il tema alimentare è ben accetto, e da Boccaccio in poi diventa giustamente uno dei massimi protagonisti della Commedia umana, fuori e dentro la tematica amorosa, pur sempre in un’ottica disimpegnata, al punto da rendere la novellistica un crogiolo documentaristico di notevole importanza per le indagini di storia dell’alimentazione.
Dovremo attendere il Cinquecento per riappropriarci, e stavolta pare per sempre, del binomio classico eros-cibo, grazie alla rinata lirica erotica che ha in Pietro Aretino il proprio massimo esponente. Da questo momento in poi, parallelamente alla strada “anoressica” veicolata dagli stilemi petrarcheschi, si sviluppa un mondo poetico in cui il dialogo fra il tema alimentare e il discorso amoroso è spesso strettamente legato. Ma la sintesi è alle porte: con D’Annunzio, finalmente, anche la lirica nostrana si riavvicina, e in maniera edonistica, al cibo, considerato, in linea con il decandentismo dell’epoca, come uno strumento raffinatissimo ad innescare il fervore dei sensi, al punto da “catturare” nella sua trappola persino Gesù Cristo, sposo di Maddalena e padre di Eleabani. Una teoria affascinante quella del Vate, che non a caso proviene da uno dei massimi gourmet moderni e, senz’ombra di dubbio, anche amante instancabile nonché poeta sommo: artista completo a tutti gli effetti e senza limite alcuno.
Per la foto si ringrazia http://www.birdsontheblog.co.uk/breaking-up-is-hard-to-do/
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Cibo e eros, due mondi indissolubili
ma non per lo strano caso della lirica italiana
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