Archivio Storico 2011-2017

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Il formaggio nel risotto

11 Maggio 2012
dal ‘cacio lodigiano grattato’ del Cherubini al pecorino di Marchesi
Incredibile a dirsi, siamo giunti all’ultima puntata della carrellata sulle tecniche tradizionali ed innovative per la preparazione del risotto.

Apprestandoci a parlare della fase della mantecatura che prevede l’aggiunta del formaggio, nel Vocabolario Milanese-Italiano del Cherubini (1814) il lemma “risotto” (voce che per antonomasia indica quello allo zafferano) cita chiaramente il ‘cacio lodigiano grattato’ come unico prodotto caseario ammesso oltre al burro: si tratta di quello che oggi chiamiamo Grana Lodigiano e che un tempo era un poco più morbido e, dicono i nostalgici, faceva persino la goccia.

Senza essere esageratamente ossessivi con la filologia culinaria, per insaporire un risotto al bacio si può ricorrere ad un buon Grana Padano stagionato 24 mesi, ma anche al Parmigiano, ovviamente, che in un piatto con tutti i crismi non dovrebbero mai mancare. C’è anzi una diatriba storica fra i sostenitori del Grana da una parte e quelli del Parmigiano dall’altra, che affonda sicuramente in ragioni di carattere geografico e conseguenti tradizioni locali (anche se i malevoli preferiscono insistere sulle ragioni economiche che giustificano l’uso massiccio del primo con il costo più contenuto).

Le solite eccezioni confermano la regola: ma si tratta di eccezioni altolocate, partorite dai più grandi chef milanesi, come nel caso del Riso nero e argento di Gualtiero Marchesi. Non per nulla il Maestro è stato premiato con la medaglia d’oro all’ultimo Congresso Mondiale del Riso che si è tenuto a Valencia il 2 ottobre scorso del 2011: la sua ultima creazione, un riso al nero di seppia mantecato con pecorino e impreziosito con una lamina d’argento, è stata dedicata ai 150 anni dell’Unità d’Italia e presentato nel menu del Marchesino alla Prima della Scala dello scorso dicembre.

E’ prassi comune, ad ogni modo, mantecare il risotto con formaggi diversi, dalla toma allo stracchino passando per le provole e i caprini e persino il gorgonzola: e questo, chiaramente, deriva dall’uso familiare o dall’estro del momento, anche se un tempo (così come per la tipologia di riso) si avevano le mani legate dalla reperibilità dei prodotti caseari in commercio. L’esagerazione, si sappia, non è mai gradevole; pertanto sarà intelligente abbinare i sapori ma senza coprire la natura del risotto, che tale deve rimanere e non divenire… un pastone da tirare sui muri stile calcina! Il formaggio deve quindi esaltare il piatto, caratterizzarlo, senza però comprometterne la gentilezza, che nel risotto è praticamente un obbligo morale prima ancora che di tecnica culinaria.

Un’ultima, doverosa considerazione a proposito di consistenze: se è vero che ai milanesi e in generale ai lombardi è decisamente gradita l’onda, ossia la morbidezza che vela il piatto e che tiene legati i chicchi in maniera armoniosa pur separandoli dignitosamente, spostandosi verso il Piemonte, ad esempio, il risotto diventa un po’ più “gnucco” e meno brodoso, al punto spesso da rimanere un poco in forma: questione di varianti regionali, mentre al contrario in area veneta e mantovana, quindi oltrepassando Mincio e Po si fa decisamente brodoso. Del resto, essendo la tradizione culinaria una pratica che si trasmette di casa in casa, di cucina in cucina, non può che presentare da un lato una codificazione, e dall’altra mille varianti concesse alla stessa. Così come la lingua, infatti, anche l’arte gastronomica, evolvendosi, di tanto in tanto necessita di nuove ridefinizioni e regole.
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