Quando vieni a contatto con una realtà come quella di Ippoasi, farsi delle domande non è solo una conseguenza, ma è soprattutto un dovere morale.
Al di là della domanda quasi scontata e tutto sommato banale del “carne sì, carne no”, che in fondo si scontra nel subconscio con la nostra parte più primitiva che ci ricorda un tempo ormai dimenticato, quando la nostra specie viveva della caccia come della raccolta, sussurrandoci all’orecchio che abbiamo tutto il diritto di continuare ad essere onnivori se la natura ha stabilito così, la domanda che deve sorgere dentro di noi, e che conoscendo Ippoasi certamente si affaccia alla nostra mente, è questa.
Chi soffre a causa della carne, delle uova, del latte che per molti di noi sono alimenti così “normali” da non porci neppure più il problema della loro provenienza?
Nel sud del mondo ci sono migliaia di ettari di terreno, luoghi denominati “terre fantasma”, sfruttati in maniera molto più che intensiva dalle grandi multinazionali per la produzione di mangimi e per l’allevamento di bestiame da macello.
Queste attività su vastissima scala dell’industria agroalimentare sprigionano tonnellate di gas serra, composto soprattutto da azoto reattivo, che influiscono in maniera determinante non solo sullo strato di ozono che protegge il nostro pianeta, ma anche sulle popolazioni autoctone che nel caso migliore vengono impiegate a stipendi da fame nelle multinazionali stesse, e nel peggiore vengono letteralmente “sfrattate” per somme equivalenti a poche centinaia di euro dalle loro terre d’origine per andare incontro ad un futuro incerto nelle grandi città.
Pertanto, diminuire il consumo di carne a livello globale costringerebbe queste multinazionali a ridurre le loro attività, abbassando l’impatto che l’alimentazione umana ha sulla salute dell’ambiente.
Il consumo della carne nel mondo è infatti ormai totalmente insostenibile, con una media nei paesi europei di 85 kg a testa in un anno, che sono stati valutati dalla FAO come i principali responsabili del mutamento climatico avvenuto sul pianeta negli ultimi decenni, poiché il gas serra prodotto dagli allevamenti è circa il triplo di quello prodotto dai trasporti, mentre il metano risultato dalle attività digestive dei bovini ha un effetto sul clima pari a 25 volte quello provocato dalla CO2 emessa dalle industrie.
A ciò va sommato lo sfruttamento di risorse scarsamente rinnovabili come acqua, terreno e cibo.
Dovremmo quindi rinunciare alla carne?
In effetti no, poiché secondo il premio Nobel per la pace 2007 Rajendra Pachauri basterebbe rinunciarvi 2 volte alla settimana a testa per riequilibrare in maniera considerevole la situazione climatica mondiale.
Ma questo non basta per rispondere alla domanda iniziale.
Chi soffre per gli alimenti di origine animale che mangiamo?
L’uomo è un animale, la biologia, la zoologia e l’anatomia lo urlano a gran voce da ogni libro di scienze che sia mai stato scritto.
Se radiografiamo una pinna di delfino, ci accorgiamo che è identica in ogni dettaglio ad una mano umana.
In quanto animali, possiamo forse dire di avere il diritto quanto un leone di mangiare la carne, perché se il leone non si fa problemi per mangiarsi la zebra, perché noi dovremmo porci il problema se mangiarci la mucca o la capra?
Può essere vero, anzi se proprio andiamo a sottilizzare il leone non si farebbe troppi problemi neppure a mangiare noi.
Perché allora dovremmo rinunciare alla carne?
Perché noi siamo esseri razionali ed il leone no?
Se lo sostenessimo, sarebbe come dichiarare che l’uomo è un essere superiore agli altri, ed è proprio quello che non dobbiamo dire, poiché dobbiamo invece ammettere che anche gli altri animali sono esseri senzienti, dotati di sentimenti complessi quanto i nostri.
Allora perché rinunciare alla carne, se abbiamo il diritto quanto un leone od un lupo di seguire la nostra natura onnivora?
Già, il leone.
Il leone mangia le zebre, ma per ucciderle si fa dei discreti inseguimenti nella savana, non sempre con esito positivo, a volte con il risultato di saltare il pasto.
Il leone non ha scelta, non può mangiare le verdure.
L’uomo, oltre ad avere numerose alternative che gli possano evitare il salto del pasto, non va a caccia ad armi pari, perché le sue prede sono nei recinti, nelle stalle, nelle gabbie.
Sebbene questo sarebbe ancora debolmente giustificabile, in forza del fatto che siamo ormai talmente tanti che non è che possiamo andare tutti a caccia armati di lancia, dobbiamo comunque avere l’onestà di ammettere che spesso, troppo spesso, gli animali che noi alleviamo per il nostro fabbisogno alimentare sono sottoposti a condizioni di vita nelle quali molte sofferenze sarebbero più che evitabili.
Le mucche tenute venti ore su ventiquattro attaccate alle mungitrici, i vitelli indotti all’anemia per denominare “bianca” la loro carne, i polli costretti ad uccidersi tra loro per beccare il mangime in mezzo ai loro stessi escrementi, i bovini nutriti con mangimi a base di carne per farli ingrassare più in fretta, i maiali allevati al buio perché pensino solo a mangiare, le oche ingrassate fino alla morte per estrarne il “pregiato” foie gras, sono solo alcune delle bestialità sulle quali non possiamo e non dobbiamo chiudere gli occhi.
La natura stessa, che pure ci ha creati onnivori, si ribella a questi abomini inviandoci avvertimenti di cui l’aviaria e la mucca pazza sono solo gli ultimi esempi.
In mezzo a questo panorama di ingiustizia, Ippoasi prova ad insegnarci un mondo di tolleranza, giustizia ed uguaglianza tra l’animale “uomo” e gli “altri” animali.
Ippoasi, come dice il suo nome, è un'oasi, e le oasi nascono in mezzo al deserto.
E come il deserto ha bisogno delle oasi per definirsi tale, anche all’oasi serve il deserto per poter offrire ristoro ai viaggiatori.
Ippoasi è un’oasi, un punto di arrivo e di ripartenza, ma resta in mezzo al deserto, e il deserto, purtroppo, non scompare.
Nessun’oasi può estendersi al punto da ricoprire il deserto, ma può lottare per rimanevi in mezzo, per dare riposo ai viandanti affaticati, e per lasciar loro un dolce ricordo quando riprenderanno il viaggio.
Allo stesso modo, Ippoasi può e deve continuare ad esistere, a crescere in mezzo al deserto del consumismo e della corsa sfrenata al guadagno per offrirci un nuovo punto di vista, per far nascere in noi domande che, anche se non troveranno una risposta immediata, getteranno comunque semi che un giorno potranno dare i loro frutti.
Pensare che il sogno di Ippoasi possa diventare una realtà globale è certamente poetico e ci apre un panorama pressoché infinito di possibilità, la cui realizzazione però si scontra inevitabilmente con le leggi del mercato globale, leggi che per quanto ingiuste, creano comunque, che ci piaccia o no, migliaia di posti di lavoro che assicurano la sopravvivenza di altrettante famiglie.
Pensare che ognuno di noi possa coltivarsi il suo pezzetto di terra mentre gli animali pascolano liberi e selvaggi è un sogno che non può avverarsi nell’epoca della globalizzazione, non solo perché non c’è terra per tutti, ma soprattutto perché la storia è una ruota che va solo in avanti e non accetta di girare in senso contrario e tornare indietro.
Possiamo però guardare avanti, partendo magari proprio da una realtà come Ippoasi, per provare a costruire un mondo più giusto ed equo, che pur garantendo la sopravvivenza della nostra specie, non ammetta che questa sopravvivenza debba essere scritta sulla sofferenza di altre specie.
La legge della natura ci insegna che per vivere ogni essere vivente si nutre di altra vita.
Solo le piante sfuggono a questa legge, nutrendosi direttamente dalla terra, ma nel regno animale, ogni specie, compresa quella umana, si nutre della vita altrui.
Il leone mangia la gazzella, il delfino mangia le acciughe, persino il cavallo si nutre di vegetali che pur non avendo parola (ma a questo punto mi chiedo se, in un modo a noi sconosciuto, non la abbiano anche loro…) sono vivi quanto noi nel momento in cui vengono strappati dalla terra.
Proprio perché, al pari del leone, ci nutriamo della vita di altri animali, dobbiamo rispettare questa vita dal momento in cui nasce a quello in cui ci viene ceduta per farci vivere, e non dare per scontato di poterne disporre a nostro piacimento, in nome di un’ipotetica superiorità che non si capisce bene come ci siamo auto-attribuiti.
Per ogni Luna, ogni Pierino, ogni Michele salvati da Ippoasi migliaia di loro fratelli e sorelle continuano a soffrire in allevamenti le cui condizioni di esistenza sono tanto vergognose da far accapponare la pelle al meno sensibile di noi.
Se decidere di cosa nutrirsi è un diritto, deve essere una scelta consapevole stabilire se vogliamo nutrirci di creature che, oltre a cederci la loro vita, hanno urlato la loro sofferenza dal primo all’ultimo dei loro respiri, o se vogliamo che tutte queste vite possano essere vissute in maniera dignitosa in ogni loro giorno, al di là del destino che le attende.
Chiudere gli occhi di fronte alla sofferenza delle creature che ci permettono di vivere non può e non deve essere considerato accettabile, e se il mondo non potrà diventare una grande Ippoasi, perché probabilmente la nostra specie non riuscirà mai a rinunciare alla carne, che almeno ci si renda conto (anzi, chi la carne la mangia dovrebbe essere il primo a pensarlo) della gratitudine che dobbiamo provare verso gli altri animali, che ci consentono, nutrendoci, di andare avanti nella nostra evoluzione.
Se non può sparire, per natura o per scelta, l’abitudine o la necessità di nutrirci di altri animali, devono invece sparire dalla faccia della terra gli allevamenti lager, le mungiture intensive, le porcilaie buie, le batterie, i capannoni pieni di sterco, gli ippodromi ed i maneggi dove i cavalli impazziscono di paura e sofferenza, allo stesso modo in cui devono sparire i laboratori di vivisezione e la caccia, ed è nostro preciso dovere morale imporre alle istituzioni che dovrebbero regolare il vivere “civile” di pronunciarsi con veemenza in questo senso, abolendo finalmente la spirale di torture che da troppo tempo lega con crudele indifferenza chi mangia e chi viene mangiato.
E’ questo che mi ha insegnato Ippoasi, oltre a ricordarmi che sono un animale.
Mi ha insegnato che anche se alla bistecca non ci voglio rinunciare, non devo mai smettere di chiedermi da dove arriva ciò di cui mi nutro, e soprattutto chi devo ringraziare per la mia sopravvivenza.
Questi articoli sono dedicati a tutti gli amici a due ed a quattro zampe che mi hanno accolta ad Ippoasi, dalla dolce Luna all’altera Tombola, dal simpatico Cagliostro all’affascinante Mirtillo, dal caro Gorgo alla piccola Lola, ma soprattutto a tutti i loro fratelli e sorelle che ancora soffrono per le crudeltà più o meno consapevoli inflitte loro dall’animale “uomo”.
Perché Ippoasi sia davvero un punto di partenza per creare una realtà più giusta per noi e per i nostri fratelli animali, indipendentemente dalle scelte personali che ognuno di noi deciderà di compiere, ricordandoci delle parole che un giorno lontano disse un saggio:
Questa terra non ci è stata regalata dai nostri progenitori.
Essa ci è stata data in prestito per i nostri figli.
Per la foto si ringrazia Fausto Delegà
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