di DAVIDE RENZI
Patate fritte, al forno, soufflé di patate, crocchette e tanto altro. Se vi chiedessi di immaginare le patate le prime immagini sarebbero queste, e credo anche con un certo languorino improvviso.
Se facessi la stessa domanda ad una persona vissuta ai tempi dei romani non capirebbe assolutamente di cosa io stia parlando. Lo stesso, forse, ai tempi del primo Rinascimento a meno che non usassi la parola “papa” il nome originale con il quale dovremmo chiamare la patata e che somiglia tanto a colui che siede sul trono di Pietro. Allora quest’uomo del primo Rinascimento forse potrebbe pensare che mi stia riferendo con parole strane a Giulio II, papa fondatore dei Musei Vaticani ma principalmente papa guerriero e non metaforicamente parlando.
Continuando con questo gioco, se volessi chiederlo ad un frate della fine del Rinascimento allora credo che avrei come risposta un viso contrito, uno sguardo discretamente risentito ed una descrizione terribile di una pianta portatrice di terribili mal di pancia ed altrettanto terribili mal di testa. Questo perché nessuno aveva insegnato a coloro che abitavano in Europa alla fine del Rinascimento che la parte edibile è la parte sotto la terra e non le foglie, ricche di solanina, sostanza necessaria per tenere gli insetti e gli animali lontani esattamente con gli stessi meccanismi per i quali terrebbe lontani noi, crampi e mal di testa compresi.
Allora quando possiamo cominciare a pensare alle patatine fritte che ben conosciamo?
Innanzitutto gli esseri umani sono conservatori di natura e fino a che una grande carestia non si è abbattuta in Irlanda a metà del Seicento nessuno si sarebbe sognato di coltivarla e neanche di mangiarla in nessuna parte del Continente.
Poi gli uomini sono anche curiosi di natura e per superare un’altra crisi alimentare, questa volta continentale di fine ‘700, il re di Francia fece coltivare, guardate a vista, le patate. Ovviamente vi era l’ordine di non far caso se qualche contadino del regno si recava nottetempo a frugare nel terreno e rubare una o due patate reali. In fondo se la mangiano i re sarà buona, no? Così facendo abbiamo avuto l’inizio della diffusione sul continente europeo fino agli inizi del 2000, anno in cui, tra i Carpazi e gli Urali mediamente i cittadini di questa parte di Europa consumano almeno 100 kg di patate a testa l’anno.
In Italia poi, che siamo sì curiosi ma soprattutto conservatori, dobbiamo aspettare la fine della Campagna di Italia e delle repubbliche sorelle per avere un certo successo per il nostro tubero.
Eppure oggi noi crediamo, come ogni parte del mondo, di avere le patate migliori ed i piatti migliori e le patate le sentiamo anche nostre. Effettivamente le patate del fucino (dette di Avezzano per capirsi) sono notevoli, ma non per questo bisogna dimenticare che ve ne sono altre nel resto del mondo con nomi di donna, la varietà Laura, con nomi di artista, la Gaudì, e altri di fantasia, da Blue Star a Lady Amarilla per fare due esempi, di altrettanto se non maggior qualità. Insomma senza neanche renderci conto ed in tempi estremamente rapidi, abbiamo portato la patata ad essere prodotto nazionale un po’ dappertutto. Crediamo anche di aver inventato noi la crocchetta, soprattutto se vivi a Roma, quando è di origine francese (ci pensate dover ringraziare i francesi a dover dar loro il primato sulle crocchette?). Il tutto poi con estrema tranquillità. Perché in fondo amici basta trovare il buono in quello che consideriamo altro da noi per annullare tutto il resto. Per dimenticare i mal di pancia, per dimenticare che proviene dall’altra parte del mondo, come il pomodoro, e per trasformare le caratteristiche specifiche, in un arricchimento per noi stessi e per la nostra cultura. Ma questa forse è un’altra storia, oppure no?