Da bambina, a Carnevale, quando mia madre faceva i ravioli dolci al sugo, piatto della tradizione teramana che non poteva quindi assolutamente mancare in tavola, per me era già – come dire – una preparazione alla quaresima. Non avevo infatti ancora affinato il palato tanto da apprezzare accostamenti insoliti, tipo agrodolce o agrodolce-salato. A casa nostra, però, non era consentito criticare quanto veniva portato in tavola, per rispetto di chi aveva sgobbato in cucina e anche di “chi non ha niente da mangiare”. Allora, avevo elaborato una strategia: ingurgitavo in fretta la parte dolce senza pensare e lasciavo per ultimi i bordi e il sugo al pomodoro fresco, per i quali andavo pazza, così era tutto più facile.
E dire che l’accostamento dolce/salato ha origini antiche se già il gastronomo dell’antica Roma Marco Gavio Apicio, nel suo De re coquinaria, descrive con disinvoltura ricette di arrosti conditi con miele, brodi di carne e cipolla accompagnati da pasta di mandorle, legumi e zucchero, verdure cotte insaporite con miele o mosto cotto e ci dice che col garum (famosa salsa salata a base di pesce ed erbe aromatiche) si potevano condire anche piatti dolci. Oggi abbiamo qualche difficoltà ad immaginare simili accostamenti, eppure di quella stessa tradizione restano esempi celebri, come i tortelli di zucca e amaretti diffusi tra Lombardia ed Emilia, le melanzane al cioccolato in Campania, il baccalà con prugne, uvetta e pinoli che ritroviamo in diverse varianti in regioni come Toscana, Umbria e Abruzzo, le sarde a beccafico in Sicilia, le seadas in Sardegna e così via. E quanti dolci utilizzano il sale, come esaltatore di sapidità, catalizzatore di gusto (il celeberrimo pizzico di sale in un impasto dolce), neutralizzatore dell’amaro (sale nell’acqua tonica) e dell’acido (un’altra funzione del pizzico di sale nell’impasto). E chi rifiuterebbe una mousse al cioccolato a cui è stato aggiunto qualche piccolo, prezioso cristallo di sale di Maldon? Ma qui si aprirebbe tutta un’altra parentesi che ci porterebbe fuori rotta.
Tornando invece ai ravioli dolci al sugo teramani, posso dire che oggi sono entrati nella mia personale hit-parade: amo la consistenza morbida e profumata dell’interno, a base di ricotta di pecora, zucchero, cannella, tuorlo d’uovo, maggiorana e scorza di limone, che contrasta con la pasta ruvida del raviolo, l’agro delicato del sugo semplice pomodoro e basilico e l’umami del pecorino, spolverato generosamente a completare il tutto. Qualcuno sostituisce il sugo semplice con quello di carne mista, col ragout o perfino col condimento a base di burro e salvia. Altri preferiscono addirittura la versione total sweet e condiscono i ravioli con burro, zucchero e cannella, aggiungendo magari anche un cucchiaio di cacao nel ripieno.
Ma come avrà fatto questo piatto ad arrivare a Teramo, passando prima per Navelli (famosa per lo zafferano), in provincia dell’Aquila, e anche per la Sardegna, precisamente per la Gallura, dove si mangiano i pulilgioni, un piatto molto simile?
Possiamo ipotizzare forse un comune destino legato alla pastorizia, fortemente radicata sia in Abruzzo che in Sardegna, e supporre che dal nord il ripieno di zucca si sia naturalmente trasformato in un cuore di ricotta, vista l’abbondanza di pecore da latte nei due territori. Ma se la dominazione longobarda spiegherebbe facilmente il diffondersi della variante dolce/salata dei tortelli lombardi ed emiliani in Abruzzo, non basta a farci capire come poi la stessa variante sia arrivata tanto lontano. E allora in nostro aiuto arriva la fantasia che lasciamo volentieri sbizzarrire socchiudendo gli occhi mentre addentiamo un raviolo dolce al sugo: una storia che ha il sapore deciso della terra e quello profumato del mare, una storia che parla di commerci e storie d’amore, di una ricetta che passa di mano in mano e, proprio come il polline sulle zampette di un’ape fa di fiore in fiore, approda altrove e genera nuova vita.