Quello che da sempre mi ha colpito nei Vangeli è come l’umanità vi sia presente in tutta la sua totalità. Come il quotidiano con i suoi gesti, i suoi riti, le sue realtà vi sia e abbia un posto fondamentale. E in questa quotidianità, il cibo, i banchetti, la convivialità è presente e trasmette la sua carica umana. Il cibo e la Terra, il contadino, la spiga, la vite, l’albero sterile, il potatore, l’amministratore saggio. Ma nei Vangeli c’è ancora di più: nelle parabole il Signore usa il cibo per dire ai propri discepoli cosa devono essere, cosa devono diventare: sale. Devono essere il sale della Terra, il sale che non solo serve a dare sapore ma anche a conservare gli alimenti, a conservare ciò che è vitale. E il Regno dei Cieli è lievito: “che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata”.
Gesù fa il suo primo miracolo a un banchetto di nozze: a Cana, era lì con Maria e i discepoli, gli sposi saranno stati suoi amici?
Il vino finisce prima del previsto. Gli invitati saranno stati di più? Avranno bevuto di più? Ci sarà stato un errore nell’organizzare un banchetto? Non lo sappiamo. Sappiamo solo che Maria prova compassione per gli ospiti e chiede a suo figlio di aiutarli: “Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: “Non hanno vino”. Una circostanza umanissima e molto tenera. Che coglie con lo sguardo amorevole che attraversa tutti i Vangeli la vita di tutti i giorni. Il primo miracolo non è per scacciare un demone, per perdonare un peccatore, per ritrovare una pecorella smarrita, per far veder un cieco, per curare un lebbroso. No. È ad un banchetto, ad una festa, per gente felice, nella vita di tutti i giorni, dove c’è posto per richiamare Cristo, per chiedergli come al più amorevole di tutti i padri, di aiutarci, anche nel piccolo, magari nell’insulso, magari nel di più, perché è con noi e per noi comunque. E non sono gli sposi, che magari neppure hanno ancora colto l’imbarazzo che si determinerà, e neppure l’organizzatore del banchetto, no, è sua madre, l’unica che sa che Lui può aiutare chi neppure Gli ha chiesto aiuto. E Gesù dopo aver detto: “Donna che vuoi da me? Non è giunta la mia ora“ (Giovanni 1,51- 2,4) cede all’esortazione e va in aiuto agli sposi nel giorno della festa di nozze trasformando l’acqua in vino. E dà il vino buono, più buono di quello servito prima “Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto chiamò lo sposo e disse: “tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora”.
Ma i banchetti attraversano tanti altri passi evangelici. La festa per il figliol prodigo per la quale il padre ordina ai servi di prendere il “vitello grasso” perché è tornato il figlio che credeva esser perso e il padre non fa prediche, non lo rimprovera, non lo scaccia, non lo disconosce, non lo mortifica, no, gli va incontro a braccia aperte e pensa subito di dire ai servi di prendere quanto di più prelibato ci fosse per onorare il ritorno del figlio.
Ed è Gesù stesso che si preoccupa di dar cibo alle folle.
Ai derelitti, i salvati, i miracolati, che non rimanda via come un Dio lontano, che ha ridato loro quanto imploravano e va bene così, no, Gesù li ama di un amore profondo, tenero, caritatevole, compassionevole e quando le folle lo seguono in un luogo deserto sul far della sera i discepoli gli chiedono di congedarli perché tornino nei villaggi a comprarsi da mangiare ma Gesù risponde prendendo cinque pani e due pesci e moltiplicandoli perché mangino a sazietà. Lì, grazie a Lui, con Lui. Se ne fa carico. Li sfama con amore fraterno.
E ancora lo rifarà quando zoppi, storpi, cechi e molti altri malati lo seguono, li guarisce, ma prova ancora compassione per quei miracolati. Lui, il Dio fatto uomo, prova compassione perché hanno fame, perché non hanno da mangiare perché sono con Lui da tre giorni, e non vuole rimandarli indietro digiuni, teme sia troppo faticosa la via del ritorno a stomaco vuoto. E ai discepoli che increduli gli domandano dove trovare pani per sfamare una folla così grande risponde “quanti pani avete?” Vuole forse il contributo del poco che l’uomo può offrirgli? E così con sette pani e pochi pesciolini sfama quattromila uomini. Tutti mangeranno a sazietà, e porteranno via quello che avanza. E deve essere stato stupendo trovarsi fra quella folla, a seguire un uomo che ci ha guarito e dopo un miracolo tale, dopo questo, si è occupato della nostra fame, ha pensato a questo, come un amico, come un fratello, come una madre, umanissimamente, non ha voluto che soffrissimo e ci ha dato da mangiare, tutti lì, uno vicino all’altro, insieme, sul far della sera, ritemprati da quel cibo, da quel Dio che si occupava di ogni nostro umano bisogno. Fosse la salvezza, la salute, la fede, o la fame.
Ma questo Dio che si è fatto uomo, non solo procura cibo alle folle affamate, ma banchetta con gli amici che hanno un nome, un volto, delle caratteristiche e che, immagino, abbiamo quella frenesia del cuore come quando sta per arrivare a mangiare da noi un amico, un amico con il quale condividere la gioia e il calore del desco. Ma mangia anche con i pubblicani e i peccatori, che chiama, cerca, alla cui casa si reca, suscitando scandalo presso gli scribi e i farisei: “Passando, vide Levi, il figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: “Seguimi”. Ed egli si alzò e lo seguì. Mentre stava a tavola in casa di lui, anche molti pubblicani e peccatori erano a tavola con Gesù e i suoi discepoli”. (Marco, 2,13)
E così anche per la Pasqua. L’ultima Pasqua che vede Gesù, sei giorni prima, recarsi a Betania, dove si trovava il suo amico Lazzaro che aveva risuscitato dai morti “e qui fecero per Lui una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali” (Giovanni 12,1 -50) e viene da pensare quasi che il Cristo, sapendo che la sua ora era prossima, si fosse recato a cena dai i suoi amici più cari per salutarli un’ultima volta. Per mangiare con loro, nell’intimità di un pasto condiviso.
Poi arriva il giorno degli Azzimi, la fine è vicina, la Croce lo attende, l’agonia, l’orto degli ulivi, eppure Gesù che sa tutto ciò, manda Pietro e Giovanni a preparare perché potessero mangiare la Pasqua. Dà loro indicazioni specifiche “Appena entrati in città, vi verrà incontro un uomo che porta una brocca d’acqua; seguitelo nella casa in cui entrerà. Direte al padrone di casa: “Il Maestro ti dice: Dov’è la stanza in cui posso mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano di sopra una sala, grande e arredata; lì preparate”. I discepoli prepararono per la Pasqua. Gesù si congeda da loro proprio lì, a tavola, con l’angoscia che poi l’avrebbe accompagnato nelle ore di veglia nel Getsemani, egli trova la forza per dire ai suoi: “Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, perché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio”. Ha desiderato mangiare la Pasqua con loro. Pur sapendo che dopo poche ore si sarebbe offerto per salvarli. E qui quei chiodi che a breve verranno conficcati nella sua carne viva, possiamo coglierli come quelli che sono conficcati nel corpo di un uomo di 33 anni che da Dio si è fatto uomo per salvarci, ma da uomo soffrirà e morirà sulla croce.
E in quell’ultima cena istituisce l’Eucarestia.
Spezzando il pane, quello frutto del lavoro dell’uomo, e il vino, “questo è il mio corpo” e “questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue che è versato per voi”. Tantissimi pittori hanno raffigurato questa scena, tantissimi uomini l’hanno studiata, vi hanno creduto, vi hanno costruito la propria fede o la propria incredulità. Un Dio fatto uomo che saluta i suoi discepoli sapendo che da lì a poco morirà crocifisso, chiedendo al Padre, se possibile, di non bere quel calice amaro, che suderà sangue e che a cena con chi lo tradirà, celebra la Pasqua e annuncia “io preparo per voi un regno come il Padre mio l’ha preparato per me”. Lo fa a tavola. Avrebbe potuto sceglie qualsiasi luogo. Un pulpito. Un tempio. Una piazza. Avrebbe potuto parlare dall’alto di una montagna, a chi lo avrebbe tradito, disconosciuto, venduto o pianto. Dall’alto del suo essere figlio di Dio. E invece li chiama tutti intorno a un tavolo. Mangia con loro.
E quando tornerà, quando riapparirà, dopo la sua morte e la sua resurrezione, sulla strada di Emmaus a due discepoli sperduti, confusi, addolorati, angosciati e li accompagnerà per un tratto, poi cedendo alle loro preghiere, alle richieste che i due sconcertati per aver creduto nel figlio di Dio che non è sceso dalla Croce ma lì è spirato, si fermerà a mangiare con loro.
È sera, il buio rende il cuore più cupo, la solitudine più mordente, l’angoscia, il dubbio, l’umanità incredula, indifesa che chiede, che cerca.
Gesù va a cena con loro. Sarà ancora per compassione. Per amore. Per rimanere a consolarli. E quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ancora lì si fa trovare, è, tra noi, con noi, nella nostra umanità.
E nel capitolo conclusivo di Giovanni sul mare di Tiberiade Simon Pietro va a pescare, altri discepoli lo seguono. Quanta disperazione doveva albergare nei loro cuori. Avranno ricordato quando Cristo era con loro? Quando procurava loro da mangiare? Quando li salvava dalle tempeste? Quando mangiò l’ultima volta con loro? Quella notte non presero nulla. Come quando nell’angoscia più forte sembra che tutto confermi quel senso di disperazione.
Gesù era lì, ma loro non lo avevano riconosciuto. Non chiese loro se avessero ancora fede. Se gli mancasse. Se avessero capito. No. “Figlioli, non avete nulla da mangiare?” E queste sono le parole dove sentirsi accolti. Accolti per quello che siamo. Amati per quello che siamo. Le parole dove ogni nostro bisogno, ogni nostra esigenza, ogni nostra preoccupazione è preziosa agli occhi di Dio. Gesù li esorta a ributtare le reti. Pescheranno così tanto da far fatica a tirarle su. Appena scesi a terra, un fuoco di brace con sopra del pesce e del pane. Gesù disse loro “Portate un po’ di pesce che avete preso ora”, come noi quando qualcuno che amiamo profondamente ha fame e siamo felici di preparare da mangiare. “Gesù disse loro: “Venite a mangiare”. Un gesto umanissimo compiuto dal figlio di Dio per sfamare i suoi discepoli, per farsi uomo fra gli uomini. È lì che capirono che era il Signore?
“Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere” Così conclude Giovanni.
Ma io ringrazio Dio che, fra le cose che sono state scritte, c’era di questo Gesù.
Di questo volto amabile che ha abbracciato, prima della Croce, tutti gli uomini e la loro vita, in ogni piccolo importante indispensabile aspetto che ha condiviso e celebrato.
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Amo la pasta che affonda. Quando la butti nell’acqua. Un tonfo secco e il fondo…
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Quando il freddo fa parte dei giorni, delle stagioni, degli anni. E così vorresti coprirti i pensieri, avvolgerli, riscaldarli, rianimarli da un lungo gelo.
Allora vorresti andartene in giro con il berretto in casa, di verghiana memoria , a coprirti per scacciar fuori ciò che ti assale e ghiaccia.
A volte fa freddo… -
Oggi è uno dei tanti giorni di silenzio. Quello nel quale si sveglia il nostro Paese e che preghiamo non venga interrotto dalle sirene ora non più impastate nei ritmi che le rendevano anonime, che ci rendevano estranei. Oggi questi silenzi siderali che avvolgono le nostre mura, hanno reso il nostro cuore più attento, il nostro udito più vigile…
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Dove andremo? L’unica indicazione la possiamo trovare nel da dove veniamo. E’ tempo di provviste. Provviste dell’anima…
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le parole sono macigni. Sono i sassi che poniamo ai piedi di qualcuno che poi deciderà che farci, magari costruirci sopra la propria casa, la propria vita. E noi non lo sappiamo, non possiamo deciderlo e neppure modificarlo…
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Io adoro il mulo. Arroccato alla fatica. Quella che disgusta, che sembra orpello della stupidità. Quella dozzinale, di ogni giorno.
Quella degli uomini da poco, di quelli che “non sono un’aquila”, di quelli che insistono e persistono, i frustrati, per intenderci, o tali bollati. Io li adoro… -
Appena franto l’olio urla come il vagito di un neonato, ma invece di farlo nei vostri timpani lo fa nel vostro palato e nella vostra gola, con tutta la potenza che madre natura gli ha concesso. È infuriato. Del resto, come non comprenderlo?
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Mi dispiace deludervi: non ho condizionatore. E non soffro il caldo. Io il caldo lo mangio. Lo mangio, lo mordo.
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Io sono stata condannata a te. Una terra dura e austera, dolce e generosa, imprevedibile e fedele. Una terra che sa essere tutto e il contrario, e che nelle contraddizioni mi ha insegnato la temperanza, la pazienza, il rigore, la follia…
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Scrivo velocemente come chi sta aspettando qualcosa che tarda a venire: la Primavera, algida e capricciosa che non arriva e, se arriva, va via prima che si riesca ad abbracciarla, ad acciuffarla.
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Se qualcuno mi avesse chiesto quale fosse il mio lavoro avrei detto: mantenere quel mondo.
I suoi volti, le sue strette di mano, le sue voci, le sue parole. Mantenere quel mondo, la sua disperata, disarmante, onnivora bellezza.
Perché non c’era posto per altro, come di fronte all’infinito. -
A settembre stiamo un po’ tutti così. Sospesi.
Sospesi fra il vecchio e il nuovo. Fra i raccolti e le semine. Fra le albe e i tramonti e ci sembra che questi estremi siano più vicini di quanto ce lo ricordassimo, di quanto ci servirebbe per capire questi giorni come viverli, se appesi a una speranza o a un rancore. A settembre si decide cosa estirpare e cosa coltivare, cosa seminare e cosa lasciare arido, a settembre si capisce se si vuole continuare a provare a cambiare qualcosa, o lasciarci stare.