Devo ammetterlo: l’estate non è la mia stagione preferita. Sarà perché soffro particolarmente il caldo, sarà perché ho il cuore da montanara, sarà per quel che sarà, ma di questa stagione io salvo solo la luce, i fichi, il cocomero e gli arrosticini! No – dico – ne avete mai sentito il profumo? Ah, quando si parla di arrosticini, il mio cuore comincia a battere forte e rivendica con fierezza le sue origini abruzzesi.
L’estate è il tempo per eccellenza delle sagre di paese e in Abruzzo viene fuori il meglio della tradizione enogastronomica di una terra ricca e feconda, oltre che estremamente varia.
Tanti piatti meriterebbero di essere conosciuti e apprezzati anche al di fuori dei confini regionali e non è escluso che non si torni sull’argomento.
Oggi, però, il protagonista è il signor rrustèll, da cui rrustècill, poi a-rrusticill e infine, italianizzando, standardizzando, forse in assonanza con spied-ino, a-rrostic-ino. Le origini si perdono se non proprio nella notte dei tempi, senz’altro in quella delle transumanze, anche se qualcuno considera gli arrosticini un prodotto della vita stanziale dei pastori e, come spesso – se non sempre – accade, della necessità: per utilizzare infatti la carne delle pecore più anziane, quelle sacrificabili in un’economia povera e – aggiungerei anche – sana, questa veniva tagliata in piccoli tocchi che, intervallati da pezzettini di grasso, venivano infilati ne li ving, rametti ottenuti dalla potatura de lu vètch (vinco o vetrice o salice viminale), una pianta molto duttile che cresce spontanea lungo i fiumi, e infine arrostiti sulla brace. Li ving erano usati anche dai ranocchiari (depositari di un mestiere antico di cui troviamo tracce perfino in un racconto di Ignazio Silone), i quali ci infilzavano le rane spellate ed eviscerate e così le trasportavano, al riparo di un telo umido, in una cassettina montata sulla loro bicicletta.
Ma torniamo agli arrosticini.
Come spesso accade con un prodotto così buono, un po’ tutta la regione ne rivendica la paternità. Escludendo L’Aquila e Chieti perché la presenza degli arrosticini viene segnalata solo negli ultimi decenni, restano in lizza Teramo e Pescara. In realtà è un falso dilemma, perché molti dei comuni che oggi fanno parte della provincia di Pescara rientravano, fino al 1927, nella provincia di Teramo. Ed è proprio il caso dei comuni dell’altopiano del Voltigno, tra il versante orientale del Gran Sasso e la riva sinistra del fiume Pescara, comuni ai quali viene dai più attribuito il merito della golosa invenzione. Comunque siano andate le cose, oggi gli arrosticini sono inseriti tra i PAT (prodotti agroalimentari tradizionali) e sono diffusi non solo in tutta la regione, ma anche in quelle limitrofe, oltre ad essere conosciuti e apprezzati addirittura all’estero.
Anzi, oggi a volte si ha l’impressione che l’arrosticino sia proprio di gran moda: ultimamente impazza, ad esempio, l’uso del fegato e mi è capitato perfino di assaggiare carne di manzo al posto di quella ovina!
Tutto buonissimo, per carità. Ma è un’altra cosa. Inoltre, la lavorazione industriale sta lentamente soppiantando quella artigianale…
I veri arrosticini dovrebbero essere fatti di pezzi di circa un centimetro di carne di pecora tagliata a mano, infilata ne li cipp (=bastoncini) e messa a cuocere su la furnacell (=fornacella), dove il grasso si scioglie lentamente e mantiene morbida la carne. Andrebbero poi accompagnati da lu pan ond e abbruscat (pane abbrustolito, unto con olio extra vergine di oliva) e da un bicchiere di Montepulciano d’Abruzzo. Al limite, si potrebbe usare la carne di castrato, sostituire il pane con le patatine fritte e il vino con la birra, ma è già una grossa concessione e tutto il resto andrebbe decisamente evitato o chiamato con altro nome.
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