La pesca Esselunga sta infiammando l’autunno.
La pesca e le idiosincrasie di questo Paese, dove si discute della fuffa perchè fa paura discutere dei problemi reali.
E allora spuntano meme, barzellette, scambi di battute più o meno serie, dediche (“questa banana te la manda papà” una su tutte, giusto per fare un esempio dei toni canzonatori).
Il Paese è diviso. Anche stamane, su La7 se ne discuteva in rassegna stampa; è argomento da quotidiani, la pesca, che condanna i genitori che si separano togliendo il sorriso alla bimba più bella d’Italia, che premia le emozioni suscitate con 30” di immagini in scorrimento su un video.
La popolazione si schiera e ognuno ha i suoi motivi.
Io che non ho figli mi immedesimo nella bimba che soffre e inganna bonariamente il papà tramutandosi – a sua insaputa – in una “Marta Flavi” del nuovo Millennio.
I genitori separati lacrimano la crudeltà di un mondo che li vede separati dalla prole amata – quasi sempre più della propria vita.
I genitori liberi dalle catene di un rapporto sbagliato si irrigidiscono, facendo loro stessi di tutta un’erba un fascio, rimproverando l’uso strumentale di un bambino per ottenere della puerile visibilità commerciale.
Su quest’ultimo punto mi vorrei soffermare. Senza giudicare, senza recriminare, da esterna che guarda il mondo con gli occhi lucidi di una lucità distaccata.
Ieri sera sono stata a cena da Domò Sushi.
Un bel locale, in stile botanical, aperto a Roma da X tempo. Un sushi all you can eat sui generis.
Intanto non c’è dentro un cinese manco a pagarlo. E men che meno un giapponese (perchè, si sa, gli all you can eat sono tutti gestione cinese…).
Camerieri e accoglienza sono totalmente italiani. Giovane ed elegante, nella sua nera divisa, manovalanza italiana.
Si mangia bene, ma proprio di un gran bene. Ed è incredibile perchè – vi ripeto – trattasi di un all you can eat.
Eppure la differenza la senti e la vedi. Non solo nei gamberi crudi che si sciolgono in bocca come i crudi di alcuni locali di pesce che ho provato nel tempo. Non solo nel riso che si sgrana delicato e non invade il boccone ma avvolge gentilmente il gusto del pesce che lo accompagna.
La differenza la vedi nelle porzioni. Piccole.
Le porzioni sono piccole ma tu puoi ordinarne quante ne vuoi. E allora ti ritrovi deliziosi bocconcini da sperimentare, che stuzzicano il palato e predispongono al riordino. Da Domò Sushi non ti appioppano otto roll identici per saziarti e impedirti di ordinare troppo. Te ne portano un paio di ogni gusto, attentamente decorati, senza strafare nelle dimensioni, nei topping, bilanciando ogni piatto per regalarti una singola buona esperienza di gusto.
Da Domò Sushi il servizio è più che rapido, la cortesia è scontata, l’atmosfera strizza l’cchio al lusso della Milano da bere ma la caduta di stile è sotto gli occhi attenti di una sociologa come me.
L’accoglienza è formata da 4-5 belle ragazze che stazionano davanti l’ingresso. Ti assistono quando arrivi e – spaesat* – chiedi della tua prenotazione. Che poi tu resti spaesat* dal non sapere dove sederti in un locale con spazi così ampi o da cotanta bellezza sbattuta in faccia senza preavviso, non è dato saperlo.
Dentro si trovano molti tavoli, molta gioventù e un buon 90% di personale maschile che serve i tavoli. Forse anche 95. Aspetto? Trascurabile. Assolutamente trascurabile. Sono ragazzi, giovani, alti, bassi, che non distolgono l’attenzione dell’avventore dal piatto, dall’esperienza e dalla conversazione.
La cattura è già avvenuta, dentro si mangia e si spende. Dentro non conta la fuffa, conta la sostanza. Il personale di servizio è quello che dice il nome stesso, un mero servizio da far fruire a corollario della serata.
Stessa modalità dell’ingresso vale per l’uscita, un tragitto diverso che ti guida alle casse, con altre 4-5 ragazze di pari livello estetico che ti fanno il conto, ti fanno pagare, ti porgono il bancomat, il resto e il loro aspetto di cui godere per qualche minuto. Ti fanno anche ricordare – nel caso l’avessi scordato – cosa c’è qui al Domò Sushi oltre al buon cibo.
E ieri sera, dopo aver goduto della compagnia e aver saziato la mia voglia di cibo nipponico mi è tornata in mente la pesca di Esselunga e “l’uso strumentale di un bambino per ottenere della puerile visibilità commerciale.”
Tutto torna. Solo che non ce ne rendiamo conto. E – nel caso di Domò Sushi – forse nemmeno ve n’era bisogno.
Vicedirettore di questa rivista nonché blogger, giornalista, laureata in comunicazione, parlo di food ma non solo; recensisco locali ed eventi, racconto di persone e situazioni su siti e riviste. Qui su Cavolo Verde – sperando di non essere presa troppo sul serio – chiacchiero, polemizzo, ironizzo, punzecchio e faccio anche la morale.
In sintesi? Scrivo – seriamente – e mi piace. Tanto.
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