C’è una differenza ontologica fra il galleggiare e l’emergere.
Una differenza che si coglie nel vivere.
Non ho mai amato ciò che galleggia.
Galleggia perché la mancanza di essenza lo fa essere in superficie.
La fisica parla di densità, l’anima di essenza.
Amo la pasta che affonda.
Quando la butti nell’acqua.
Un tonfo secco e il fondo.
La sua sostanza si immerge, solo quando dall’acqua ha preso e dato, inizia il vortice e il mulinello. Un processo creativo che necessita del fuoco.
Mi piace guardare a tu per tu il cuore della pasta, il suo nerbo.
In cucina potrei fare a meno di tutto tranne che dello stipo della pasta. Interminabili pomeriggi bambini durante i quali decide se restare libera o farmi catturare. Le sue ante, finestre su un mondo bizzarro, creativo, generoso: mi affaccio e porto il mio. Parliamo. Giochiamo. Creiamo. Scacciamo fantasmi e paure.
Quanta individualità nella pasta. Personalità marcate. Anime distinte. Parole diverse.
Lo ho imparato in momento buio. Aprivo lo stipo e potevo parlare solo con gli Spaghetti.
Quei longilinei eleganti fili che sono pronti a piegarsi e ripiegarsi su rebbi gelidi per dar vita ad un’opera d’arte.
Gli Spaghetti. Si calano quando non c’è testa per altro.
È un errore. Un orrore.
Ci si rivolge agli Spaghetti come a qualcuno di affidabile, di solido, qualcuno che ha perso la sua rigidità per creare qualcosa di impensabile, di duttile, di creativo, di bello.
Avete mai mangiato uno Spaghetto singolo? Può capitare, ma non è questa la sua vocazione. Il singolo spaghetto è sublime. Ha senso concluso, è completo nella sua singolarità. Eppure gli Spaghetti si abbracciano insieme. Quanto andare oltre c’è? La costruzione di un progetto.
Gli stolti masticano gli Spaghetti, come incontrano gli uomini veri e non li riconoscono. Dovrebbero essere banditi questi tizi. Dovrebbe esserci un valutatore che dica loro: no, lei non può acquistare uno spaghetto,non lo ha compreso.
E le Farfalle? Potete, in un giorno di pioggia, mettervi gli stivali e prendervi tutto ciò che il cielo manda giù per arrivare in chiusura di negozio a prendervi le Farfalle?
Se mangiate con il cuore sì.
Perché quella pioggia si cancella solo con una farfalla.
E il vicino ottuso e greve? La macchia di meschino si pulisce solo con uno “Scaffettune”, i famosi Paccheri, ma, per me, sempre e per sempre Schiaffoni, perché, vedete, io quando li mangio, elaboro quel sentimento.
Le Tempestine? Quelle che vi parlano nelle tempeste fisiche o emotive, quelle che calate quando la febbre del corpo o dell’anima vi toglie la forza.
I Ditalini: grani di un rosario di cura, di grazia e di pazienza, le stesse che ci vogliono per sgranare i piselli, le fave, i fagioli, per sgusciare i gamberi, per dare un compagno ai vostri ditalini.
Le Eliche apripista di un viaggio di evasione, di una fuga fra il polline che è stato nel loro sole.
Le Trenette, leziose compagne di un tempo lento: quello del ragù, del forno che si scalda, le Trenette, merletti di un mondo distante, compassato, colto, fra i vapori della cucina che fu.
I Ricci di donna, capricci, capricci, vezzi, quando il vento deve spazzarvi l’anima dalle nuvole ottuse, quando l’unica cosa che volete è attorcigliarvi solo fra i vostri pensieri.
Le Linguine. Forbite, ricercate, eleganti come i sughi composti con i quali si sposano.
I Bucatini. La pasta del capotreno. La pasta che fischia. Fischia e se ne infischia. Parte, va via, via via lontano, lontano dal compunto desco degli animi spenti, incasellati, ingrigiti e imbalsamati. La pasta dei bambini e dei vecchi, di quelli che le regole non hanno ancora cambiato o hanno smesso di cambiare.
Le Stelline della prima infanzia. La pasta della vita, non per nulla amanti dell’uovo che tutta la racchiude.
Le Ruote. Il riso che si segue e si insegue, dentro un piatto, dentro un pensiero, dentro una convenzione che facciamo rotolare via sui raggi del grano che alimenta.
Le Fettuccine pragmatiche come solo chi sfama sa essere. Impregnate di sughi densi perché è al succo che puntano ed è lì che si esprimono.
E poi loro. Gli Ziti.
Gli Ziti sono i grandi saggi. Gli antenati, gli archetipi i capostipiti. Come tutti i saggi vestiti di follia. Come tutti i saggi piacciono a pochi e pochi li cercano, li curano, li frugano. Con le mani che li accarezzano, poi li misurano, li spezzano. Come si fa con una verità difficile, tanto da sembrare banale, volgare.
Negli scaffali si trovano raramente. Pochi pastifici li fanno.
Pochi li comprano, e non si preparano mai se ci sono ospiti. Gente con il tovagliolo asserragliato fra le dita a scudo per le macchie.
Gli Ziti sono lo scandalo.
Lo scandalo che si copre e si fa gratinare.
Lo scandalo allo sguardo supino del tempo odierno.
Sodi, invadenti, imbarazzati, fuori luogo, fuori piatto, posata, bocca.
Gli Ziti, che ti riempiono solo a nominarli. Che ti tagliano le mani ad addomesticarli, e lasciano quei brevi frammenti di sé, la parte che più ti confonde, nella quale può giocare a perderti solo se hai imparato a ritrovarti.
Gli Ziti: medicamento contro l’andare senza anima del tempo.
Della Pasta e dell’Amore: sulla stessa corda del cuore.
Photo by Immo Wegmann on Unsplash
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Scrivo velocemente come chi sta aspettando qualcosa che tarda a venire: la Primavera, algida e capricciosa che non arriva e, se arriva, va via prima che si riesca ad abbracciarla, ad acciuffarla.
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Perché non c’era posto per altro, come di fronte all’infinito. -
A settembre stiamo un po’ tutti così. Sospesi.
Sospesi fra il vecchio e il nuovo. Fra i raccolti e le semine. Fra le albe e i tramonti e ci sembra che questi estremi siano più vicini di quanto ce lo ricordassimo, di quanto ci servirebbe per capire questi giorni come viverli, se appesi a una speranza o a un rancore. A settembre si decide cosa estirpare e cosa coltivare, cosa seminare e cosa lasciare arido, a settembre si capisce se si vuole continuare a provare a cambiare qualcosa, o lasciarci stare.