Tra le particolarità della cucina italiana, uno degli elementi di interesse, soprattutto se vista dalla prospettiva del nord Europa, è la ricchezza e la varietà delle verdure invernali, spesso caratterizzate dalla nota amara del sapore. Pensiamo ai carciofi, alle varie cicorie (come la scarola o le puntarelle), alle cime di rapa o al cavolo nero, e naturalmente al radicchio.
Quest’ultimo in particolare, soprattutto nelle varietà più pregiate – il radicchio rosso di Treviso, quello di Verona o di Chioggia e il radicchio variegato di Castelfranco – negli ultimi decenni ha vissuto un progressivo espandersi del mercato, sia pure restando un prodotto di nicchia destinato soprattutto all’alta gastronomia o ad un pubblico di intenditori.
Se dunque da lato un abbiamo osservato una crescente diffusione in Europa e nel mondo, legata alla espansione del commercio mondiale, d’altra queste varietà di radicchio mantengono una collocazione di nicchia nel mercato.
La forza e l’unicità dei radicchi veneti deriva soprattutto dalle modalità di produzione, basate su condizioni materiali non facilmente ripetibili in località diverse da quelle di origine (ad esempio dalla grande disponibilità di acqua sorgiva) e una grande intensità di mano d’opera (che ha reso questo prodotto impermeabile alle grinfie dell’agrobusiness, in quanto non realizzabile secondo modalità intensive).
Queste peculiarità del radicchio – espressione di un territorio ben preciso e realizzato sostanzialmente da aziende di dimensione familiare – che ne fanno un prodotto commercialmente vincente per la sua qualità, che suscita un interesse crescente in tutto il mondo, oggi vede questo potenziale minacciato soprattutto dalla crisi climatica. La legittima richiesta degli agricoltori di veder riconosciuta e tutelata la specificità di un prodotto inimitabile ha negli anni trovato una risposta sia nelle legislazioni nazionali che in quella europea, come pure nella nascita di consorzi che si propongono appunto di tutelare l’originalità e unicità dei prodotti. Una parte importante di questi processi è la definizione dei disciplinari che stabiliscono il modo in cui deve avvenire la produzione, che consente poi l’uso legittimo del nome e/o del marchio tutelato dalla legge o dai consorzi.
Per tutelare la qualità e l’originalità ci si impegna cioè a seguire regole comuni nella produzione, sia nei materiali, che nei processi di produzione.
Ma negli ultimi anni, il cambiamento climatico sta mettendo a dura prova i disciplinari di produzione del radicchio. Si pensi al radicchio rosso di Treviso, per il quale uno dei fattori importanti per determinare l’esito del complesso metodo di produzione è il freddo: con le gelate la brina blocca il processo di sviluppo delle foglie, che poi ricresceranno al coperto, durante il processo di forzatura/imbianchimento con cui si ottiene il caratteristico colore rosso, la speciale croccantezza, la costruzione di un sapore piacevolmente amaro. Ma ormai con il cambio climatico le gelate tra novembre e gennaio sono diventate una rarità e si è stati costretti a rivedere il disciplinare, riducendo il requisito ad una sola gelata.
Nonostante questo, molti produttori non riescono a rispettare il disciplinare ed hanno deciso di abbandonare il consorzio di tutela. Si pensi che nell’inverno 2020, in alcune campagne del trevigiano la prima gelata è arrivata a marzo – arrecando tra l’altro danni ai frutti primaverili – e che gli ultimi radicchi sono stati messi sul mercato ad inizio maggio, a primavera già avviata. Se pensiamo inoltre, che a rendere peculiare il modo di produzione del radicchio è la grande quantità di acqua disponibile nel territorio della provincia di Treviso, possiamo ben capire come i cambiamenti del clima siano una minaccia crescente per il radicchio. Proprio il tessuto di piccole aziende locali, che storicamente ha garantito la qualità unica di questi prodotti, deve trovare presto la capacità di guardare e pensare in grande, con uno sguardo più ampio sul mondo, se vuole essere all’altezza della sfida.
Credits photo: www.ilfioredellasalute.com
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