Dalla finestra di un piano basso lo scorcio che si vede è troppo poco. Quasi fosse un vezzo di un volto familiare che abbiamo dimenticato e da cui proviamo a ricostruirlo con fervore.
E, come sempre accade, nella povertà d’insieme si stagliano i particolari.
Siamo come sconosciuti. Come estranei a incontrarsi per la prima volta e ad amarsi più di quanto, nelle concitate primavere delle ere perse, sia mai accaduto.
Sembra un secolo fa e questa città non aveva volto. Senza un’anima propria che la cogliesse diversa dalle mille altre occupate da clacson, sirene, ingorghi, partenze ai semafori. Non aveva voce, non un timbro suo, se non quello uguale alle altre metropoli. Non aveva colori, al di là dell’asfalto, né sguardi se non ricurvi sui propri passi.
Non c’era spazio, nella fretta, per guardare gli occhi dei suoi palazzi, i vecchi vezzi dei balconi, le inferriate, i portoni, le edicole votive, i fili dei lampioni. I cirri, i tramonti sui tetti, sugli abbaini sul punto più vicino al cielo che ci vedeva distratti. Non c’era spazio né odore, oltre il tanfo che alternava inquinamento a spazzatura.
Non c’era crepa, o raggio di sole che andasse a svelare i suoi intonaci, nei colori, nello sciogliersi della storia, una storia troppo gravida perché la fretta potesse darci modo di studiare, di scrutare.
Oggi è uno dei tanti giorni di silenzio.
Quello nel quale si sveglia il nostro Paese e che preghiamo non venga interrotto dalle sirene ora non più impastate nei ritmi che le rendevano anonime, che ci rendevano estranei.
Oggi questi silenzi siderali che avvolgono le nostre mura, hanno reso il nostro cuore più attento, il nostro udito più vigile. Come se questo vuoto ci avesse riempito d’altro. Come se, spogliandosi di tutto, ogni città avesse ritrovato la propria anima. L’espressione del proprio cuore, i lineamenti della propria storia. E gli abitanti l’attenzione di vederla, di volerla capire, di riuscire a parlarci.
Immobili, nei piccoli squarci che si aprono alla visuale degli spogli balconi, delle terrazze, degli angusti cortili scopriamo i suoni domestici, gli odori, le parole, i visi. Quegli stessi che non sapevamo esserci come se, questa umanità stipata forzatamente in casa, abbia per noi un richiamo ben maggiore di quella che ci correva a fianco per strada.
Ci vediamo senza vederci. Al contrario di prima. Ci toccano senza sfiorarci. Ci chiamano a farci presenti fosse solo per un saluto intuito dietro una mascherina. Dove prima non c’era voglia di riconoscerci, ora ci si cerca, nell’eco dei passi solitari lungo strade insolite, ci si punta da un marciapiede a un altro, per dirsi con gli occhi che ci siamo. Siamo qui. E questo è già tanto. L’altro non è un inciampo, un intralcio, un numero prima della fila ma un volto coperto che porta una storia, una casa, un dolore e una speranza che oggi è più vicino al nostro.
E così, fragile, la città nuda e vera si riprende ombre lunghe, alberi, voli d’uccelli, folate di primavera, di umanità.
Quasi che, allungando il pensiero, a poca distanza incontrasse i campi sconfinati.
Inondati di sole. Infinti. Parabole con cui Dio continua a spiegarci la Vita.
Dove gli alberi indiscussi padroni proseguono il loro colloquio con il Creato.
Indisturbato.
Ininterrotto. Uguale.
Nei campi nulla è cambiato.
I fiori continuano a sbocciare, le api a volare, la primavera a profumare, le lunghe distanze a riempirsi solo di occaso, le rondini a garrire, le foglie a volteggiare, la polvere a sollevarsi. I raggi a cercare i tramonti.
Gli uomini intenti a lavorare.
È sera ed è mattina, e le spighe crescono, i ricacci si allungano, le cesoie tagliano. I fili d’erba ondeggiano al ritmo di un vento antico.
E ancora, ancora città e campagne diverse, tanto da non comprendersi, da non capirsi. Neppure immaginarsi.
Ora l’anello debole regge la catena, con appesi la normalità e il futuro.
La mattina, vicino all’alba, nell’aria rarefatta le portiere sbattono e le ruote portano in campo i trattori.
Continuano a lavorare. Nel silenzio di sempre, distante dal vuoto delle strade. Immoto il loro andare sempre uguale. Rassicurante come quando c’è da mangiare.
Anche ora, anche oggi, troppo lontani da ciò che il mondo vive.
Come una bolla di sapone in un sogno.
Eppure porteranno pane da mangiare, latte da bere, frutta da addentare, carne da arrostire, olio, vino, uova, storia quotidiana da preservare.
Come se nulla fosse. Come se il cuore stretto e stritolato servisse a farsi più coraggio.
Ancora lontani. Ancora alienati. Costipati in piccoli spazi gli uni. Dispersi in ampie distese gli altri.
L’anello debole sta tenendo fede alla catena. Come un bue mansueto sui solchi del domani che sorgerà, come dopo ogni buio.
Gli agricoltori sono fra i pochi a continuare. Le campagne a celebrare i riti della Vita come se questa avesse voluto concedere al passo lento di poter andare e alla frenesia di fermarsi.
La storia si è ribaltata.
E non riusciamo neppure a capacitarcene. Gli inutili di colpo diventati essenziali. E l’essenziale scoperto superfluo.
La Terra continua a girare. La rana, pronta a saltare il fosso, non può capire che siamo sbigottiti.
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Amo la pasta che affonda. Quando la butti nell’acqua. Un tonfo secco e il fondo…
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Quando il freddo fa parte dei giorni, delle stagioni, degli anni. E così vorresti coprirti i pensieri, avvolgerli, riscaldarli, rianimarli da un lungo gelo.
Allora vorresti andartene in giro con il berretto in casa, di verghiana memoria , a coprirti per scacciar fuori ciò che ti assale e ghiaccia.
A volte fa freddo… -
Oggi è uno dei tanti giorni di silenzio. Quello nel quale si sveglia il nostro Paese e che preghiamo non venga interrotto dalle sirene ora non più impastate nei ritmi che le rendevano anonime, che ci rendevano estranei. Oggi questi silenzi siderali che avvolgono le nostre mura, hanno reso il nostro cuore più attento, il nostro udito più vigile…
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Quello che da sempre mi ha colpito nei Vangeli è come l’umanità vi sia presente in tutta la sua totalità. Come il quotidiano con i suoi gesti, i suoi riti, le sue realtà vi sia e abbia un posto fondamentale. E in questa quotidianità, il cibo, i banchetti, la convivialità è presente e trasmette la sua carica umana…
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Dove andremo? L’unica indicazione la possiamo trovare nel da dove veniamo. E’ tempo di provviste. Provviste dell’anima…
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le parole sono macigni. Sono i sassi che poniamo ai piedi di qualcuno che poi deciderà che farci, magari costruirci sopra la propria casa, la propria vita. E noi non lo sappiamo, non possiamo deciderlo e neppure modificarlo…
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Io adoro il mulo. Arroccato alla fatica. Quella che disgusta, che sembra orpello della stupidità. Quella dozzinale, di ogni giorno.
Quella degli uomini da poco, di quelli che “non sono un’aquila”, di quelli che insistono e persistono, i frustrati, per intenderci, o tali bollati. Io li adoro… -
Appena franto l’olio urla come il vagito di un neonato, ma invece di farlo nei vostri timpani lo fa nel vostro palato e nella vostra gola, con tutta la potenza che madre natura gli ha concesso. È infuriato. Del resto, come non comprenderlo?
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Mi dispiace deludervi: non ho condizionatore. E non soffro il caldo. Io il caldo lo mangio. Lo mangio, lo mordo.
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Io sono stata condannata a te. Una terra dura e austera, dolce e generosa, imprevedibile e fedele. Una terra che sa essere tutto e il contrario, e che nelle contraddizioni mi ha insegnato la temperanza, la pazienza, il rigore, la follia…
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Scrivo velocemente come chi sta aspettando qualcosa che tarda a venire: la Primavera, algida e capricciosa che non arriva e, se arriva, va via prima che si riesca ad abbracciarla, ad acciuffarla.
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Se qualcuno mi avesse chiesto quale fosse il mio lavoro avrei detto: mantenere quel mondo.
I suoi volti, le sue strette di mano, le sue voci, le sue parole. Mantenere quel mondo, la sua disperata, disarmante, onnivora bellezza.
Perché non c’era posto per altro, come di fronte all’infinito. -
A settembre stiamo un po’ tutti così. Sospesi.
Sospesi fra il vecchio e il nuovo. Fra i raccolti e le semine. Fra le albe e i tramonti e ci sembra che questi estremi siano più vicini di quanto ce lo ricordassimo, di quanto ci servirebbe per capire questi giorni come viverli, se appesi a una speranza o a un rancore. A settembre si decide cosa estirpare e cosa coltivare, cosa seminare e cosa lasciare arido, a settembre si capisce se si vuole continuare a provare a cambiare qualcosa, o lasciarci stare.