Dopo il patto tra Dio e l’uomo, sancito nel deserto davanti ad un paio di focacce, velocemente impastate da una ultraottantenne Sara, ignara di tutto ciò che le sarebbe successo da lì in poi, il rapporto con l’Alto sarebbe passato attraverso una serie di sacrifici di purificazione con cui l’anima avrebbe dovuto ripulirsi dalla contaminazione con il cibo, come spiega lucidamente Piero Camporesi nel suo saggio Le officine dei sensi.
Se l’uomo di oggi vive 325 giorni dell’anno tra gozzoviglie di varia entità e natura, a chiunque lo desideri la Quaresima offre puntualmente un tempo di purificazione, dal Mercoledì delle Ceneri al Venerdì Santo, di precisi dettami che possono essere osservati dai cristiani praticanti in buona salute e in una fascia di età compresa tra gli 8 e i 65 anni.
Ma in pochi forse sanno che oltre il precetto quaresimale, con giorni “a basso voltaggio”, esistevano almeno altri due tipi di dietetica della privazione: da una parte, la quaresima permanente dei santi e quella delle grandi realtà conventuali, dove la “regola” di una routine ripetitiva si presta a poche sorprese.
Accanto a questa cucina regolata, fu teorizzata una vera e propria anticucina, dai codici rovesciati, una cucina di segno negativo di completo annullamento del corpo per affermare un’etica diversa con una cucina differenziata rispetto al resto, valida per i cercatori di infinito di Dio che approda al modello tebaico, dei padri del deserto. Basti ricordare san Girolamo, che si scandalizzava dei cibi cotti, Sant’Antonio abate, che mangiava una sola volta al giorno, oppure ogni quattro, cibandosi solo di pane e sale, con qualche goccio d’acqua.
Il suo discepolo, Ilarione di Gaza, si accontentava di succo d’erbe e pochi fichi secchi,ogni tre quattro giorni , modificò la sua dieta solo in conseguenza di visioni estreme, inserendo mezzo litro di lenticchie.
Compiuti ventisette anni, si cibò di erbe e radici crude e, solo successivamente introdusse 160 g di pane d’orzo e verdure appena scottate, senza olio. Un antesignano della dieta mediterranea, con i suoi frullati verdi, pane scuro,ecc. I padri cucinieri del deserto potrebbero insomma apparire come protodietologi di una cucina sradicata dal fuoco, la stessa forse dei moderni voyeurs gastromani, con cui, secondo Camporesi, ci sarebbero dei punti di sconcertante contatto. Accanto a questa riflessione si pone il problema dei condimenti. Per evitare gravi carenze vitaminiche, lo stesso Ilarione corresse la sua dieta con olio, ritenuto al pari di una medicina, una delizia terapeutica, da evitare o utilizzare con discrezione, come suggeriva alle sue comunità lo stesso san Bernardo, responsabile dell’ordine cistercense. Per i santi padri, la gola era la naturale porta del peccato. Per il cristianesimo moderato, l’anima si salva curando il corpo. D’altra parte è la fame il miglior condimento.
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