Una volta un conoscente mi raccontò una piccola disavventura che gli era occorsa con la polizia stradale: fermato per un controllo di routine, avrebbe risposto all’agente che lo stava interrogando con un po’ troppa confidenza e si era sentito rispondere “Ma come si permette? Non abbiamo mai mangiato insieme!”
Anche se poi la cosa è finita senza conseguenze, il protagonista della storia deve aver passato un brutto quarto d’ora. Per quanto limitato, l’episodio è istruttivo: se non abbiamo mai mangiato insieme siamo completi estranei, mentre se abbiamo condiviso il cibo, ecco, siamo almeno conoscenti, possiamo trattarci con un po’ più di confidenza, magari perfino scherzare insieme.
Non si può negare che le occasioni conviviali siano fondamentali per costruire la socialità.
Ovviamente non si riduce tutto alla condivisione del desco: ci sono tante altre cose che si possono condividere e che finiscono per creare un legame fra le persone, ad esempio lo sport; eppure il cibo resta uno dei collanti sociali più forti. Immaginiamo dei compagni di squadra, affiatati e coesi: ve lo immaginate se non andassero mai a bere o mangiare qualcosa insieme?
In generale la condivisione di un’esperienza crea sempre un legame sociale e più l’esperienza è forte e significativa, più forte sarà il legame che ne scaturisce. Condividere il cibo sembra essere una delle forme più elementari di condivisione, nonché una delle più significative. Mangiare è un’esigenza biologica basilare, eppure quando condividiamo il cibo non ci stiamo semplicemente nutrendo: il cibo è anche piacere, una forma di realizzazione di sé, se vogliamo. Il primo contatto del neonato con la madre è veicolato dall’atto di nutrire.
Nelle occasioni conviviali spesso c’è un’asimmetria: qualcuno offre il proprio cibo a qualcun altro, privandosene.
È sicuramente una situazione di potere, anche perché il donare, come mostrò ampiamente Marcel Mauss[1], richiede sempre un ricambiare, prima o poi. Chi riceve il cibo si trova in una situazione di riconoscenza nei confronti di chi lo ha offerto. Rifiutare il cibo o non apprezzarlo possono costituire offese imperdonabili[2].
Certamente si mangia con i familiari e con gli amici, come per rinsaldare, riattualizzare il legame sociale che già esiste; ma si mangia anche con gli estranei, per conoscerli e creare un legame che non c’era. A parte infatti i legami di parentela, che hanno una base in buona parte biologica[3], la maggior parte dei nostri rapporti sociali si basano sull’interazione sociale; non necessariamente sulla sua frequenza, ma in buona parte sulla sua intensità.
Il gruppo di amici che si trova per la pizzata annuale in un certo senso riattualizza la propria appartenenza al gruppo ogni volta che la pizzata si ripete.
Non stupiamoci se si mangia, persino, con i nemici, per recuperare magari un rapporto che si era guastato. D’altra parte, è con i nemici che si fa la pace, e quale modo migliore che condividere il cibo? Offrire del cibo a un nemico significa prima di tutto mettere da parte l’ostilità e allo stesso tempo creare quell’obbligo di reciprocità che abbiamo visto prima; mangiando lo stesso cibo mostriamo al nostro avversario che non è avvelenato e che si può fidare di noi.
Poi ci sono gli edonisti misantropi come me, che se proprio devono vedere qualcuno chiedono: “Ma almeno, c’è da mangiare?”
[1] Marcel Mauss, Saggio sul dono, Einaudi
[2] Lo so che state pensando a Indiana Jones e il Tempio maledetto!
[3] Anche se i rapporti di parentela non si esauriscono nella biologia: ad ognuno di essi corrisponde un suo doppione socioculturale, e non sempre le due cose vanno di pari passo; si può essere genitori adottivi ad esempio, pur senza alcuna parentela biologica verso i propri figli; in molte società si può essere “fratelli” all’interno di una confraternita religiosa pur senza esserlo biologicamente.
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