Amo i muli.
I muli da fatica.
Quelli a testa bassa. Le orecchie all’ingiù.
Quelli senza guizzi nell’occhio.
Una quieta mansuetudine di chi non ha fretta perché sa di dovere reggere fino alla fine.
I muli. Quelli ai quali camminare in salita o discesa non cambia. Uno zoccolo dietro l’altro, forse l’unico compagno del loro andare.
Il tonfo secco, aspro di polvere, monotono come antidoto al terrore degli strapiombi.
Eppure sembrano non turbarli quelle stradine impervie di montagna, quelle che le aquile sorvolano dall’alto, distanti e curiose, godendosi il paesaggio. Il mulo ne conosce ogni millimetro di terra, ogni più infinitesimale sasso, ogni sdrucciolo, ogni battito perso del cuore, travolto dall’affanno e dalla fatica.
È intento a ogni inciampo.
Voi sapreste inciampare in cielo, fra le nuvole, l’aria, il vento?
Mondi che non si toccano: l’aquila e il mulo.
Si baciano sul confine ultimo dell’orizzonte, ma è un bacio di Giuda, l’eterno tradimento, fra la fatica e il vento.
Il vento che la spazza e ne ride, ne ride di chi la affronta.
Io amo il mulo.
Di un amore sconfinato e imperituro.
Forse tardivo.
Ma forse no.
Perché l’ho sempre amato.
Da quando lo vedevo accucciato dietro Gesù Bambino a scaldarlo con l’alito nella grotta del Presepe.
Sapete il fiato di un mulo cosa scalda?
Scalda l’umanità.
Quella intenta a volare credendo che le ali si trovino per strada, per caso, per eredità, per privilegio.
Io adoro il mulo.
Arroccato alla fatica.
Quella che disgusta, che sembra orpello della stupidità.
Quella dozzinale, di ogni giorno.
Quella degli uomini da poco, di quelli che “non sono un’aquila”, di quelli che insistono e persistono, i frustrati, per intenderci, o tali bollati. Io li adoro.
I muli.
Quelli che insegnano alle aquile a volare.
Perché non c’è vero volo se non quello che va oltre sé.
E il mulo lo conosce.
Vola ogni giorno.
Oltre la sua fatica, oltre i suoi rischi, oltre le sue paure, oltre le sue stanchezze, le sue ignoranze, le sue anelate quieti.
E là, dall’alto di quella mulattiera, che il cielo lo tocca.
E vi garantisco: lo conosce meglio dell’aquila.
Io amo i muli.
In via di estinzione.
Ai margini di un mondo che confonde la libertà con l’alienazione.
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Amo la pasta che affonda. Quando la butti nell’acqua. Un tonfo secco e il fondo…
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Quando il freddo fa parte dei giorni, delle stagioni, degli anni. E così vorresti coprirti i pensieri, avvolgerli, riscaldarli, rianimarli da un lungo gelo.
Allora vorresti andartene in giro con il berretto in casa, di verghiana memoria , a coprirti per scacciar fuori ciò che ti assale e ghiaccia.
A volte fa freddo… -
Oggi è uno dei tanti giorni di silenzio. Quello nel quale si sveglia il nostro Paese e che preghiamo non venga interrotto dalle sirene ora non più impastate nei ritmi che le rendevano anonime, che ci rendevano estranei. Oggi questi silenzi siderali che avvolgono le nostre mura, hanno reso il nostro cuore più attento, il nostro udito più vigile…
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Quello che da sempre mi ha colpito nei Vangeli è come l’umanità vi sia presente in tutta la sua totalità. Come il quotidiano con i suoi gesti, i suoi riti, le sue realtà vi sia e abbia un posto fondamentale. E in questa quotidianità, il cibo, i banchetti, la convivialità è presente e trasmette la sua carica umana…
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Dove andremo? L’unica indicazione la possiamo trovare nel da dove veniamo. E’ tempo di provviste. Provviste dell’anima…
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le parole sono macigni. Sono i sassi che poniamo ai piedi di qualcuno che poi deciderà che farci, magari costruirci sopra la propria casa, la propria vita. E noi non lo sappiamo, non possiamo deciderlo e neppure modificarlo…
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Io adoro il mulo. Arroccato alla fatica. Quella che disgusta, che sembra orpello della stupidità. Quella dozzinale, di ogni giorno.
Quella degli uomini da poco, di quelli che “non sono un’aquila”, di quelli che insistono e persistono, i frustrati, per intenderci, o tali bollati. Io li adoro… -
Appena franto l’olio urla come il vagito di un neonato, ma invece di farlo nei vostri timpani lo fa nel vostro palato e nella vostra gola, con tutta la potenza che madre natura gli ha concesso. È infuriato. Del resto, come non comprenderlo?
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Mi dispiace deludervi: non ho condizionatore. E non soffro il caldo. Io il caldo lo mangio. Lo mangio, lo mordo.
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Io sono stata condannata a te. Una terra dura e austera, dolce e generosa, imprevedibile e fedele. Una terra che sa essere tutto e il contrario, e che nelle contraddizioni mi ha insegnato la temperanza, la pazienza, il rigore, la follia…
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Scrivo velocemente come chi sta aspettando qualcosa che tarda a venire: la Primavera, algida e capricciosa che non arriva e, se arriva, va via prima che si riesca ad abbracciarla, ad acciuffarla.
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Se qualcuno mi avesse chiesto quale fosse il mio lavoro avrei detto: mantenere quel mondo.
I suoi volti, le sue strette di mano, le sue voci, le sue parole. Mantenere quel mondo, la sua disperata, disarmante, onnivora bellezza.
Perché non c’era posto per altro, come di fronte all’infinito. -
A settembre stiamo un po’ tutti così. Sospesi.
Sospesi fra il vecchio e il nuovo. Fra i raccolti e le semine. Fra le albe e i tramonti e ci sembra che questi estremi siano più vicini di quanto ce lo ricordassimo, di quanto ci servirebbe per capire questi giorni come viverli, se appesi a una speranza o a un rancore. A settembre si decide cosa estirpare e cosa coltivare, cosa seminare e cosa lasciare arido, a settembre si capisce se si vuole continuare a provare a cambiare qualcosa, o lasciarci stare.