Un aspetto importante delle situazioni legate al cibo è costituito dalle “buone maniere”. Ogni società sviluppa le proprie, ma persino al suo interno possono cambiare, nel tempo, nello spazio e fra gruppi sociali diversi. Non solo le buone maniere in Italia sono diverse da quelle, per esempio, in Cina, ma possiamo ben dire che le buone maniere di oggi sono diverse da quelle del XVI secolo, così come quelle dell’alta borghesia saranno diverse da quelle degli scaricatori di porto (ça va sans dire).
Il sociologo francese Pierre Bourdieu aveva denominato habitus quell’insieme di modi di presentarsi, esprimersi, comportarsi e vestirsi che accomunano coloro che condividono l’appartenenza a un certo gruppo sociale: un insieme di norme e di modelli di comportamento che vengono rapidamente interiorizzati dai soggetti e da essi stessi riprodotti in modo più o meno consapevole.
Nella società è indispensabile acquisire una competenza nelle “buone maniere”: sapere cioè cosa si fa e cosa non si fa, perché può risultare offensivo o maleducato, e in quali occasioni.
Fra questi modelli e norme troviamo anche le buone maniere a tavola: a che ora si mangia, come si tengono le posate, quali alimenti si possono o non si devono abbinare fra loro, di cosa è lecito parlare e di cosa è inopportuno, e via dicendo. La conoscenza delle “buone maniere” divide il “selvaggio” dal “civilizzato”, e non solo in una prospettiva occidentale e moderna: in ogni cultura e società ci sono questi modelli di comportamento.
Nell’Odissea, Polifemo mostra la propria barbarie perché non conosce e non rispetta le leggi dell’ospitalità, che vigevano fra le persone “civili” nel mondo omerico. La conoscenza delle buone maniere segna il confine fra Natura e Cultura, secondo l’antropologo Claude Lévi-Strauss (anche se per ogni società questo confine è diverso).
Chiunque abbia sovente a che fare con degli stranieri si sarà spesso trovato a pensare “ma questi non sanno proprio stare al mondo!”.
Gente che prende il cappuccino dopo cena, che mette il parmigiano (o peggio ancora il pecorino) su delicatissimi scampi, che fa la parmigiana con il pollo invece delle melanzane o che – delitto di lesa maestà! – mette l’ananas sulla pizza. Qualche tempo fa girava la storia della nonnina pugliese che, scandalizzata, esclamava “va bene non saper cucinare, ma questi non sanno mangiare!”.
Uno dei capisaldi dell’antropologia culturale è il relativismo: quell’atteggiamento che ci permette, durante la ricerca sul campo, di sospendere il giudizio sugli usi e costumi dei “nativi” che stiamo studiando, evitando cioè di giudicarli implacabilmente sulla base delle nostre categorie etnocentriche. In altre parole, se fanno qualcosa che a noi sembra bislacco perché ci è stato insegnato così, non significa che sia necessariamente bislacco di per sé, bensì che è semplicemente un elemento di diversità culturale, che possiamo e dobbiamo comprendere nel suo contesto specifico.
Eppure, spesso è difficile liberarci di questi modelli, norme e valori che abbiamo così profondamente interiorizzato: chi fa etnografia si sforza dunque di superare il proprio – fisiologico – etnocentrismo attraverso il relativismo culturale.
L’antropologo italiano Ernesto De Martino auspicava che si giungesse a una sorta di etnocentrismo critico, ovvero di presa di coscienza dei limiti delle proprie categorie culturali, senza tuttavia necessariamente abbandonarle del tutto, dato che non si può comprendere la diversità se non partendo da quelle nostre stesse categorie, che ci sono familiari.
Insomma, la prossima volta che vedrete un turista pucciare la pizza con l’ananas nel cappuccino, frenate lo sdegno e provate a immaginarvi etnografi di fronte a un’usanza esotica, che dovete studiare con il distacco dello scienziato sociale.
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Si tratta di un vino passito con gradazione alcolica di almeno 13,5°, giallo dorato con riflessi ambrati, dal profumo intenso passito con note di miele, dal sapore dolce e abboccato, con retrogusto mandorlato.