La volta scorsa ci siamo concentrati su quello che mangiamo, ma per quanto riguarda quello che NON mangiamo, cosa possiamo dire? In molte culture sono presenti dei tabù alimentari, alcuni dei quali possono sembrarci incomprensibili o assurdi. Ma, analizzando meglio la questione, ci accorgeremo che non solo i tabù alimentari non sono affatto assurdi, ma anche che ce li abbiamo pure noi.
Molti antropologi hanno studiato i tabù alimentari, producendo diverse interpretazioni. Personalmente, da buon materialista, trovo che la più convincente sia quella di Marvin Harris, la teoria del foraggiamento ottimale. Per foraggiamento si intende l’attività di ricerca e raccolta del cibo, che ha un costo in termini di calorie. Alcuni alimenti presentano un rapporto fra calorie spese e calorie ottenute più vantaggioso di altri.
Se in una società un alimento presenta un rapporto costi/benefici svantaggioso, verrà abbandonato e si produrrà un tabù alimentare.
Questo può accadere in due modi: se l’animale è comunque utile, diventa “sacro”, mentre se è potenzialmente dannoso diventa “immondo”. Prendiamo il maiale: questo tabù, ebraico ed islamico, era già presente presso le antiche popolazioni del Medio Oriente, come i Babilonesi. L’archeologia ci mostra che, allo sbocciare della rivoluzione neolitica, l’area era fresca e boscosa e il maiale era presente negli insediamenti dell’epoca, come Ebla. Man mano che però il clima diventava sempre più arido, vediamo il maiale scomparire dai siti archeologici. Il maiale infatti non suda e perciò ha bisogno di acqua o meglio ancora di fango per mantenersi fresco. Essendo onnivoro, trova facilmente nutrimento nel bosco, ma senza di esso va alimentato con cibo che potrebbe essere adatto alle persone (dove il clima lo consente, diventa un ottimo spazzino, che trasforma i rifiuti in salsicce). È facile comprendere come l’inaridimento del Medio Oriente abbia portato le popolazioni dell’epoca ad abbandonare una fonte di cibo che stava diventando sempre meno conveniente e che, anzi, se lasciato libero avrebbe minacciato le colture (e perciò rientra nella categoria “immondo”).
Vediamo il caso delle vacche indiane.
In epoca vedica pare che in India le vacche si mangiassero e che anzi fossero uno dei sacrifici preferiti. Nell’alto medioevo, però, la pressione demografica aumentò a dismisura. In un periodo di crescente scarsità alimentare, macellare una vacca appariva sempre meno sensato, finché divenne un tabù a tutti gli effetti. Una vacca infatti produce più cibo da viva che da morta, sia grazie al latte che produce, sia come forza lavoro nei campi. Non solo non conviene mangiarla, ma offre latte e forza lavoro: è ovviamente sacra!
In Europa ci sembra immorale mangiare cani e gatti, mentre ci disgusta profondamente l’idea di mangiare insetti.
Cani e gatti sono dei carnivori e quindi sono nettamente svantaggiosi, come fonte di cibo, rispetto agli erbivori. Inoltre, svolgono delle funzioni utili all’uomo. Il cane fornisce aiuto nella caccia e fa la guardia: il migliore amico dell’uomo! Il gatto elimina i roditori che minacciano le scorte alimentari e perciò in Egitto divenne sacro. I cani, che possono adattarsi a una dieta onnivora, appaiono come fonte regolare di cibo solo in contesti dove scarseggiano grandi erbivori domestici, come ad esempio nell’Impero Azteco o in Polinesia.
I gatti vengono mangiati solo in periodi di grande scarsità, in emergenza.
Per quanto riguarda gli insetti, vediamo che sono una fonte di cibo perlopiù in aree tropicali, dove sono più grossi e più numerosi che qui da noi, e dove un tempo scarseggiavano i grandi erbivori domestici. Insomma, se hai le mucche non prendi nemmeno in considerazione i bacherozzi. Oltretutto, con l’evidente eccezione delle api, sono potenzialmente dannosi per le colture umane e quindi, secondo lo schema, rientrano nella casella “immondo”.
Photo Credits: lifegate.it
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Si tratta di un vino passito con gradazione alcolica di almeno 13,5°, giallo dorato con riflessi ambrati, dal profumo intenso passito con note di miele, dal sapore dolce e abboccato, con retrogusto mandorlato.