“Vicino al fiato tuo”
Quello stare fiato a fiato che denuncia una confidenza e un’intimità che o la si ha o non la si può fingere.
Quel fiato che non mi ha mai fatto mancare, fosse solo per scaldarmi, per spaventarmi, per farmi capire chi eri, sentire che c’eri e che io, di fronte al tuo fiato, potevo solo cibarmene.
Sono corsi così gli anni con te che ho follemente amato e quasi mai capito, fraintendendo forse anche la strada che volevi percorressi per arrivare al tuo cuore di Terra. Ma l’ho percorsa comunque, passo dopo inciampo con gli scarponi in testa perché il cammino non mi ferisse troppo i pensieri. Non ‘cecchinasse’ tutte le mie speranze, non mi contaminasse fino in fondo l’anima.
Alla fine il dialogo è stato fra noi, e chi ci correva intorno è stata un’appendice, un’appendice infetta e dolorosa, un appendino instabile dove ho poggiato le mie lacrime, i miei dolori, le mie rivalse, le mie finte speranze, le mie paure e quella rabbia che ho masticato come fosse una radice nascosta che dissotterravi per me, amara perché mi aiutasse a digerire i tradimenti e gli inganni.
Non ho saltato un appuntamento non perché non volessi ma perché non ci siamo mai lasciate per poterci ritrovare.
Come una voglia sull’animo ti porterò lungo tutti i miei giorni.
Troppo razionale io troppo passionale tu, troppo passionale io troppo razionale tu. Siamo andati. Per come ho amato il tuo odore, il tuo colore, il sapore che evocavi ho odiato tutto ciò che dissimulava questo.
Io sono stata condannata a te. Una terra dura e austera, dolce e generosa, imprevedibile e fedele. Una terra che sa essere tutto e il contrario, e che nelle contraddizioni mi ha insegnato la temperanza, la pazienza, il rigore, la follia.
A volte questo tuo fiato è diventato arsura, vento che arde, a volte gelo, a volte capriccio e, sempre, i semi, i pollini, i frutti piegati a riceverlo. A volte è stato il lento istillare la vita. A volte una risata per dare colore, altre volte il grigiore della fine.
Non ho mai capito perché amassi così tanto il vento, fin quando non ho inteso che era il tuo affanno.
Il tuo respiro lento sale dalle zolle, dalla bruma, si nasconde fra le spighe, nelle radici, nei prati, nei campi arati, l’affanno no, l’affanno trabocca nel vento e viene a cercare, a frugare le piaghe del non so.
Io ho amato il tuo fiato e vissuto il tuo affanno.
E mi hai fatto stare nel mondo come chi conoscesse le grandi sfide e deve piegarsi alle piccole, immonde, abitudinarie sconfitte.
Non ti ho mai temuto. La grandine, la pioggia, il gelo, l’arsura, la sterilità, la tempesta, la siccità sono le parole con le quali mi hai insegnato che la Vita è stare fra Cielo e Terra.
Ma le piccole lacerazioni sì, quelle le ho temute. Ho temuto infettassero il mio animo, lo imputridissero, lo imbrattassero con le pedate del mondo che calpestava le tue zolle senza sentirne il fiato, fra gli sguardi che si chiudevano di fronte al tuo affanno.
Ho visto uomini e donne oltraggiare il nostro lavoro, non pagarlo, mal pagarlo, ho visto mercanteggiare, ricattare, incendiare, rubare, svendere, imbrogliare, stigmatizzare, sfruttare, strumentalizzare e inaridire tutto ciò che di fertile la Terra dona.
Mi sono sentita sola con il carico del tuo dolore e la rabbia della mia impotenza. Ma in fondo c’eri tu, e nulla era perso.
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Amo la pasta che affonda. Quando la butti nell’acqua. Un tonfo secco e il fondo…
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Quando il freddo fa parte dei giorni, delle stagioni, degli anni. E così vorresti coprirti i pensieri, avvolgerli, riscaldarli, rianimarli da un lungo gelo.
Allora vorresti andartene in giro con il berretto in casa, di verghiana memoria , a coprirti per scacciar fuori ciò che ti assale e ghiaccia.
A volte fa freddo… -
Oggi è uno dei tanti giorni di silenzio. Quello nel quale si sveglia il nostro Paese e che preghiamo non venga interrotto dalle sirene ora non più impastate nei ritmi che le rendevano anonime, che ci rendevano estranei. Oggi questi silenzi siderali che avvolgono le nostre mura, hanno reso il nostro cuore più attento, il nostro udito più vigile…
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Quello che da sempre mi ha colpito nei Vangeli è come l’umanità vi sia presente in tutta la sua totalità. Come il quotidiano con i suoi gesti, i suoi riti, le sue realtà vi sia e abbia un posto fondamentale. E in questa quotidianità, il cibo, i banchetti, la convivialità è presente e trasmette la sua carica umana…
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Dove andremo? L’unica indicazione la possiamo trovare nel da dove veniamo. E’ tempo di provviste. Provviste dell’anima…
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le parole sono macigni. Sono i sassi che poniamo ai piedi di qualcuno che poi deciderà che farci, magari costruirci sopra la propria casa, la propria vita. E noi non lo sappiamo, non possiamo deciderlo e neppure modificarlo…
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Io adoro il mulo. Arroccato alla fatica. Quella che disgusta, che sembra orpello della stupidità. Quella dozzinale, di ogni giorno.
Quella degli uomini da poco, di quelli che “non sono un’aquila”, di quelli che insistono e persistono, i frustrati, per intenderci, o tali bollati. Io li adoro… -
Appena franto l’olio urla come il vagito di un neonato, ma invece di farlo nei vostri timpani lo fa nel vostro palato e nella vostra gola, con tutta la potenza che madre natura gli ha concesso. È infuriato. Del resto, come non comprenderlo?
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Mi dispiace deludervi: non ho condizionatore. E non soffro il caldo. Io il caldo lo mangio. Lo mangio, lo mordo.
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Io sono stata condannata a te. Una terra dura e austera, dolce e generosa, imprevedibile e fedele. Una terra che sa essere tutto e il contrario, e che nelle contraddizioni mi ha insegnato la temperanza, la pazienza, il rigore, la follia…
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Scrivo velocemente come chi sta aspettando qualcosa che tarda a venire: la Primavera, algida e capricciosa che non arriva e, se arriva, va via prima che si riesca ad abbracciarla, ad acciuffarla.
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Se qualcuno mi avesse chiesto quale fosse il mio lavoro avrei detto: mantenere quel mondo.
I suoi volti, le sue strette di mano, le sue voci, le sue parole. Mantenere quel mondo, la sua disperata, disarmante, onnivora bellezza.
Perché non c’era posto per altro, come di fronte all’infinito. -
A settembre stiamo un po’ tutti così. Sospesi.
Sospesi fra il vecchio e il nuovo. Fra i raccolti e le semine. Fra le albe e i tramonti e ci sembra che questi estremi siano più vicini di quanto ce lo ricordassimo, di quanto ci servirebbe per capire questi giorni come viverli, se appesi a una speranza o a un rancore. A settembre si decide cosa estirpare e cosa coltivare, cosa seminare e cosa lasciare arido, a settembre si capisce se si vuole continuare a provare a cambiare qualcosa, o lasciarci stare.