Il World Press Photo è un’organizzazione no-profit fondata nel 1955 ed è alla base del più prestigioso concorso di fotogiornalismo mondiale. Ogni anno vengono selezionate le migliori foto che, dopo la premiazione, iniziano il loro viaggio in una mostra itinerante in ben 40 paesi.
Sono anni, oramai che visito la mostra quando fa tappa a Roma.
Ci vado da sola, come amo fare quando devo prender parte a qualcosa che mi coinvolge intimamente.
In completo silenzio entro, mi accredito e inizio il mio lento viaggio. Foto dopo foto leggo ogni riga delle didascalie preziose che mi spiegano il luogo, il tempo e la circostanza che ha portato allo scatto premiato, imparo cose che non so, notizie di attualità, natura, sport, notizie lontane da me mi arrivano riga dopo riga. Le immagini iniziano a susseguirsi, lente, davanti ai miei occhi. Le guardo, le studio, le scopro e poi, pregna della loro storia, torno a fissarle con più attenzione, studiandole e scoprendone ogni angolo, spiluccando da loro come se fosse un piatto colmo di leccornie; come un cameriere che stappa un vino davanti al cliente, mi nutro dei loro colori, delle scene rappresentate e così bene narrate. Fotografia dopo fotografia, sala dopo sala, mi nutro del bello ma molto più spesso dell’orrido del mondo, dello scioccante, del pauroso, del desolante spettacolo che siamo noi, esseri umani e che facciamo noi, del mondo che ci circonda e che crediamo, sciocchi Dei in Terra, di governare.
Ogni singola volta, ogni anno, io esco da lì in silenzio, perché non riesco a parlare, perché mi vergogno dei miei simili e contemporaneamente mi sento grata del luogo preciso in cui ho avuto la pura fortuna di nascere e vivere.
Esco dal World Press Photo in silenzio e con lo stomaco completamente chiuso, oppure no, forse non è chiuso, è semplicemente pieno, pieno delle bruttezze del mondo, quelle che tanta gente intorno a me deride, sottostima, ignora volutamente; Sono sazia, piena di vomito per quelli come me, anzi no, per quelli peggiori di me. Il peggior difetto di questo tempo credo sia l’ipocrisia che affligge l’uomo moderno, lo culla e lo rende cieco. Il World Press Photo, come uno specchio, come la bilancia per l’obeso, ti mette davanti alla realtà del tuo corpo, flaccido e pallido, malato e abbandonato a se stesso, che continuerai a vessare con ogni cibo spazzatura, con ogni abbuffata, con ogni violenza culinaria con cui lo affliggerai. Il mondo, chi lo abita, così come noi, il nostro corpo, vanno preservati, vanno mantenuti e santificati a loro modo.
Se è vero che l’arte nutre l’anima, nulla è più vero di questo se ci si rapporta al World Press Photo, un nutrimento per l’anima ma forse – soprattutto – per le nostre coscienz
Vicedirettore di questa rivista nonché blogger, giornalista, laureata in comunicazione, parlo di food ma non solo; recensisco locali ed eventi, racconto di persone e situazioni su siti e riviste. Qui su Cavolo Verde – sperando di non essere presa troppo sul serio – chiacchiero, polemizzo, ironizzo, punzecchio e faccio anche la morale.
In sintesi? Scrivo – seriamente – e mi piace. Tanto.
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