Scrivo velocemente come chi sta aspettando qualcosa che tarda a venire: la Primavera, algida e capricciosa che non arriva e, se arriva, va via prima che si riesca ad abbracciarla, ad acciuffarla.
Sulle nostre teste il giogo dell’inverno duro a finire, duro a portare, come le sere buie che si chiudevano troppo presto e noi con i fari nei campi per allungare il giorno. Abbiamo bisogno del sole che sciolga il nostro lavoro, i nostri pensieri, le nostre ombre.
In campagna, ora, è il tempo trepidante dell’attesa, di quando si è seminato, si è potato, si è concimato, si è curato e non resta che dissetare, scegliere, raccogliere e trebbiare.
Il tempo di vedere crescere ciò che si è fatto, il tempo di vedere il proprio lavoro portare frutti.
Il grano è alto, la spiga si è formata, ora maturerà e imbiondirà, noi non abbiamo che aspettare, il nostro lavoro puntuale, certosino, ostinato si è fedelmente compiuto. L’ultimo atto con le ultime concimazioni, ora aspettiamo e non resta che carezzare con lo sguardo la spiga, piena dei nostri sforzi, dei nostri desideri, della nostra passione, delle nostre aspettative e paure. Un campo di grano, come un mare di pensieri ci avvolgerà fino alle lune di San Giovanni e conteremo i giorni e le notti prima della trebbia.
Le zagare sono fiorite, hanno rispettato l’appuntamento, fra i tagli che abbiamo fatto la Natura ha nuovamente trovato il suo corso, la linfa ha spinto per far spuntare i nuovi getti e i fiori hanno inebriato l’aria di felicità. La zagara è sempre una promessa. E noi aspettiamo che si compia, fra le api laboriose e ronzanti noi aspettiamo che l’odore si tramuti nei frutti e li disseteremo, concimeremo, cureremo e accompagneremo lungo l’estate, alle soglie dell’inverno per raccogliere le speranze divenute mature.
L’erba medica aspetta il primo sfalcio, gli ulivi si schiudono e dalla loro austera riservatezza uscirà il fiore, tenue, delicato, sobrio, come un impegno, come una parola data.
Fra le loro fronde la civetta sfacciata canterà tutta notte, e le cicale prenderanno a frinire, e le lucertole si sfiniranno di sole e i papaveri dondoleranno ebbri, e le margheritine, le calendule, la camomille, sarà un tripudio e ogni tanto la trincia morderà i colori e li ridarà alla terra e saranno succo a sbiadire la fame delle zolle.
I peschi sono carichi. Hanno abbandonato il loro spietato rigore. Non sono più ombre ossute contro il cielo, la loro preghiera non è più silente e austera, ora ridono, ridono,opulenti e smemorati per come erano stati tragici e muti. Il loro portamento argenteo ed elegante si è coperto di un manto voluttuoso e verde, ridondante, come i tonfi che racchiudono, fra le anse del verde, sboccano i frutti, hanno preso il posto dei fiori fragili ed eterei. Ora le macchie di colore lisce o pelose, preannunciano succosità, croccantezze, polpe turgide e compatte, profumi d’estate. L’estate profuma di pesca, di mare, di erba, di vento, di sole, di zolle, di tutto il nostro lavoro che si fa sudore e pesa, ora, meno che nel lungo inverno.
Quello al cui altare solo noi abbiamo pregato. Pregato fiduciosi che le nostre preci fatte mani nodose tinte di terra e motori, di sacrificio e paura, di gelo e ostinazione, occhi persi, pensieri rincorsi, speranze coltivate e paure rimandate, ora siano frutto maturo.
È arrivata primavera, anche se ancora non arriva, ma la strattoniamo a noi: non toglieremo le calze e indosseremo sempre gli scarponi, la terrà ci insegna a proteggere ciò che ci regge in piedi.
Vivetela con noi: nei nostri occhi ancora innamorati di un miracolo che continua a stupirci, che continua ad accudirci.
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Amo la pasta che affonda. Quando la butti nell’acqua. Un tonfo secco e il fondo…
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Quando il freddo fa parte dei giorni, delle stagioni, degli anni. E così vorresti coprirti i pensieri, avvolgerli, riscaldarli, rianimarli da un lungo gelo.
Allora vorresti andartene in giro con il berretto in casa, di verghiana memoria , a coprirti per scacciar fuori ciò che ti assale e ghiaccia.
A volte fa freddo… -
Oggi è uno dei tanti giorni di silenzio. Quello nel quale si sveglia il nostro Paese e che preghiamo non venga interrotto dalle sirene ora non più impastate nei ritmi che le rendevano anonime, che ci rendevano estranei. Oggi questi silenzi siderali che avvolgono le nostre mura, hanno reso il nostro cuore più attento, il nostro udito più vigile…
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Quello che da sempre mi ha colpito nei Vangeli è come l’umanità vi sia presente in tutta la sua totalità. Come il quotidiano con i suoi gesti, i suoi riti, le sue realtà vi sia e abbia un posto fondamentale. E in questa quotidianità, il cibo, i banchetti, la convivialità è presente e trasmette la sua carica umana…
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Dove andremo? L’unica indicazione la possiamo trovare nel da dove veniamo. E’ tempo di provviste. Provviste dell’anima…
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le parole sono macigni. Sono i sassi che poniamo ai piedi di qualcuno che poi deciderà che farci, magari costruirci sopra la propria casa, la propria vita. E noi non lo sappiamo, non possiamo deciderlo e neppure modificarlo…
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Io adoro il mulo. Arroccato alla fatica. Quella che disgusta, che sembra orpello della stupidità. Quella dozzinale, di ogni giorno.
Quella degli uomini da poco, di quelli che “non sono un’aquila”, di quelli che insistono e persistono, i frustrati, per intenderci, o tali bollati. Io li adoro… -
Appena franto l’olio urla come il vagito di un neonato, ma invece di farlo nei vostri timpani lo fa nel vostro palato e nella vostra gola, con tutta la potenza che madre natura gli ha concesso. È infuriato. Del resto, come non comprenderlo?
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Mi dispiace deludervi: non ho condizionatore. E non soffro il caldo. Io il caldo lo mangio. Lo mangio, lo mordo.
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Io sono stata condannata a te. Una terra dura e austera, dolce e generosa, imprevedibile e fedele. Una terra che sa essere tutto e il contrario, e che nelle contraddizioni mi ha insegnato la temperanza, la pazienza, il rigore, la follia…
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Scrivo velocemente come chi sta aspettando qualcosa che tarda a venire: la Primavera, algida e capricciosa che non arriva e, se arriva, va via prima che si riesca ad abbracciarla, ad acciuffarla.
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Se qualcuno mi avesse chiesto quale fosse il mio lavoro avrei detto: mantenere quel mondo.
I suoi volti, le sue strette di mano, le sue voci, le sue parole. Mantenere quel mondo, la sua disperata, disarmante, onnivora bellezza.
Perché non c’era posto per altro, come di fronte all’infinito. -
A settembre stiamo un po’ tutti così. Sospesi.
Sospesi fra il vecchio e il nuovo. Fra i raccolti e le semine. Fra le albe e i tramonti e ci sembra che questi estremi siano più vicini di quanto ce lo ricordassimo, di quanto ci servirebbe per capire questi giorni come viverli, se appesi a una speranza o a un rancore. A settembre si decide cosa estirpare e cosa coltivare, cosa seminare e cosa lasciare arido, a settembre si capisce se si vuole continuare a provare a cambiare qualcosa, o lasciarci stare.