Abbiamo già avuto occasione di parlare del vino delle Cinque Terre, ma abbiamo solo accennato al passito che si produce con le stesse uve, ovvero lo Sciacchetrà. L’ultimo fine settimana di settembre si tiene a Monterosso l’evento Re Sciachetrà, volto a promuovere il prodotto e organizzato dal neonato consorzio dei produttori. Cogliamo l’occasione per parlare più diffusamente di questo vino misterioso (e fra poco vedrete perché dico che è misterioso). Si tratta di un vino passito con gradazione alcolica di almeno 13,5°, giallo dorato con riflessi ambrati, dal profumo intenso passito con note di miele, dal sapore dolce e abboccato, con retrogusto mandorlato.
Taluni ritengono che condivida con il suo parente Cinque Terre una certa sapidità, ovvero un sapore “iodato” dovuto alla vicinanza delle vigne al mare, per cui la brezza marina lascerebbe il suo segno.
Si accompagna bene con dolci secchi, magari speziati o arricchiti di frutta secca come mandorle e nocciole oppure di frutta candita, come ad esempio il pandolce, i cantucci, il panforte, il panpepato, il pan di spezie; o in alternativa dà il suo meglio accompagnando formaggi erborinati, meglio ancora se leggermente piccanti, come il Gorgonzola piccante o il Roquefort, magari con una goccia di miele.
La cosa interessante dello Sciacchetrà è che un tempo non era oggetto di commercio, a differenza del vino bianco delle Cinque Terre. Se infatti i contadini locali producevano grandi quantità di vino bianco destinato all’esportazione, lo Sciacchetrà era invece un tesoro prezioso da custodire per i momenti solenni, come matrimoni e battesimi. La resa dello Sciacchetrà è infatti di molto inferiore a quella del vino bianco Cinque Terre, nel migliore dei casi si avvicina al 30%, e richiede l’uso delle uve migliori. Sembra addirittura che non si producesse ad ogni vendemmia, ma solo nelle annate che lo consentivano. Alcuni dei miei interlocutori mi hanno riferito addirittura che in certi casi si produceva lo Sciacchetrà quando nasceva un figlio e si stappava quando il figlio si sposava, 25 o 30 anni più tardi. In effetti lo Sciacchetrà si presta bene all’invecchiamento e migliora notevolmente le sue caratteristiche con il tempo. Secondo altri, quando un bambino nasceva gli si metteva da parte una sorta di dote o corredo in bottiglie di Sciacchetrà, da conservare per i momenti importanti come la prima Comunione, la Cresima, il Matrimonio. Ma lo Sciacchetrà si prestava anche ad un altro uso di alto valore simbolico: poteva infatti essere donato a persone importanti con le quali si voleva mantenere un rapporto privilegiato, come il medico o l’avvocato (soprattutto l’avvocato, mi dicono, dato il carattere poco incline ai compromessi degli abitanti delle Cinque Terre).
Avrete notato che prima ho usato il termine “Sciacchetrà” con due C e poi il termine “Sciachetrà” con una sola C nel nome della rassegna. Il disciplinare del 1973 riporta il nome “Sciacchetrà” con due C, ma molti locali sostengono che, dato che nei dialetti liguri le doppie non si leggono, andrebbe scritto con una sola C, e per questa ragione è stato scritto così nel nome dell’evento mediatico.
D’altra parte, qualcuno potrebbe obiettare che il fatto che nei dialetti liguri le doppie non si leggano non significa che non si scrivano, anzi: si scrivono, ma non si leggono. A tagliare la testa al toro resta però il fatto che sul prodotto “autentico”, la cui autenticità è garantita dal rispetto del disciplinare, va scritto il nome previsto dal disciplinare stesso: scrivere un nome diverso, magari simile, si avvicina molto a una contraffazione (come nel caso di certi formaggi di dubbia origine che riportano la dicitura “Parmesan” per farli sembrare Parmigiano Reggiano). Ma non è finita qui…
Il nome dello Sciacchetrà è solo il primo dei misteri che lo vedono protagonista. Nei dialetti delle Cinque Terre, e dico dialetti perché ogni borgo ha la sua parlata, con differenze anche importanti in certi casi, lo Sciacchetrà non si è mai chiamato “Sciacchetrà”: verso Riomaggiore si tendeva a chiamarlo refursà, cioè “rinforzato”, mentre verso Monterosso si preferiva dire Vin duçe, cioè “vino dolce”. Ma allora questo nome così caratteristico e pittoresco da dove arriva? Ebbene, un nome così pittoresco non poteva che venire da un pittore: Telemaco Signorini, macchiaiolo di Firenze che nel 1892 frequentava assiduamente Riomaggiore. A quel tempo, molto prima del turismo di massa, erano molti gli intellettuali attirati dal fascino primordiale delle Cinque Terre, un territorio che allora era considerato arretrato e in qualche misura “primitivo”. Agli occhi dei viaggiatori stranieri, le Cinque Terre non sembravano meno esotiche della Nuova Guinea e non a caso gli antropologi già all’epoca avevano un certo interesse per questo territorio e gli usi e costumi dei suoi abitanti.
Ebbene Signorini scrive all’epoca che “le uve migliori si mettono al sole per ottenere lo sciaccatras, un vero liquore color oro brillante da bere in piccoli bicchieri”.
Tralasciando il fatto che sciaccatras è diverso da “Sciacchetrà”, e chissà come si è arrivati dall’uno all’altro, non si capisce come mai Signorini chiami così questo vino e non con uno dei nomi che erano effettivamente usati all’epoca nei dialetti locali. Pare che molti nomi di alimenti esotici siano dovuti a un equivoco comunicativo, per cui il nome che passa dalla lingua dei locali a quella dei visitatori spesso non ha nulla a che vedere con il nome originale. In alcuni dialetti liguri sciaccà significa “schiacciare” e “trà” significa “tirare”, quindi è possibile che un Signorini abbia colto un ipotetico termine sciacca-e-trà, ovvero “schiaccia e tira”. Mistero risolto? niente affatto! in primo luogo i Monterossini mi hanno fatto notare che “schiacciare” nel dialetto locale si dice “schiscià” (sì, proprio come in Milanese!), ma come se non bastasse la tecnica di schiacciare le uve e poi tirar subito via le bucce rimaste è legato alla vinificazione dei rosati o dei rossi vinificati in bianco e non c’entra proprio niente con il metodo con cui si fa lo Sciacchetrà. Il mistero si infittisce, ma non è finita qui: infatti come abbiamo ricordato Signorini scrive di uve messe al sole, che in effetti è il metodo con cui si ottengono ottimi passiti come ad esempio quello di Pantelleria. Peccato che non sia questo il metodo con cui si ottiene lo Sciacchetrà, dato che le Cinque Terre sono molto più piovose di Pantelleria e lasciare le uve “al sole” significa in pratica lasciarle esposte alla pioggia, motivo per cui queste uve si fanno appassire su graticci sospesi, nell’ombra delle cantine. Insomma, o Signorini si è preso una cantonata colossale, oppure dal 1892 a oggi è cambiato molto il modo di fare lo Sciacchetrà. Stando alle memorie degli attuali abitanti, anche dei più anziani, Signorini si sarebbe sbagliato di grosso, ma d’altra parte gli antropologi sanno che spesso il passato viene riletto alla luce del presente o se preferite il presente viene proiettato nel passato, dunque è possibile che effettivamente Signorini avesse ragione all’epoca, ma che poi il metodo di produzione sia cambiato e si sia perso il ricordo del metodo precedente.
Mistero risolto? ebbene… no! parliamo infatti delle uve con cui si ottiene lo Sciacchetrà: da disciplinare, le uve sono le stesse previste per il vino Cinque Terre DOC, cioè Bosco, Albarola e Vermentino.
L’uva Bosco in particolare è ritenuta la migliore per ottenere un buon Sciacchetrà, dato che è un’uva robusta, resistente e con un’ottima resa, tanto che in dialetto veniva chiamata Caregase¸ cioè “carica-asino” (nel senso che la produzione è talmente abbondante da affaticare un asino). Peccato che l’uva Bosco sia in un certo senso una novità alle Cinque Terre. Altre uve, dai nomi dialettali come Piccabùn, Bruxapagià, Frappelà, erano usate un tempo (e qualcuno le usa tuttora), mentre l’uva Bosco era usata in minima parte. Ciò che cambiò tutto fu l’arrivo della filossera, che costrinse i viticoltori di tutta Europa a innestare i propri vitigni su piante di uva americana e allo stesso tempo a scegliere i vitigni più robusti e che garantivano una resa migliore. Alle Cinque Terre la filossera sarebbe arrivata ai primi del Novecento, almeno vent’anni dopo Telemaco Signorini, quindi è possibile in effetti che lo sciaccatràs bevuto da lui avesse ben poco a che vedere con lo Sciacchetrà che si trova oggi in commercio. Come se non bastasse, pare che un’altra uva avesse la parte del leone nella produzione dello Sciacchetrà di una volta, cioè l’uva Rossese o “Ruzzese” o “Razzese”. Oggi si conosce il Rossese di Dolceacqua, un’uva rossa diffusa nel Ponente ligure, ma molti resoconti parlano di un “Rossese bianco” in uso nel Levante. Forse in effetti si tratta della stessa uva, che per qualche ragione veniva vinificata in bianco, cioè schiacciando le uve e togliendo le bucce? Pare in ogni caso che, prima dell’arrivo della filossera e del successo dell’uva Bosco, l’uva Rossese fosse quella più importante per la viticoltura alla Cinque Terre.
Per aggiungere mistero al mistero, voglio aggiungere che molti anziani e anche meno anziani ricordato uno Sciacchetrà rosso, sì proprio rosso!, che si produceva una volta, ma che ovviamente non è previsto dal disciplinare del 1973 (che contempla solo a bacca bianca). Pare che qualcuno ancora lo faccia, usando proprio quel Rossese che è andato scomparendo dalle Cinque Terre. Sarebbe proprio da provare, che ne dite?
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