Era la Pasqua del 2012.
All’epoca convivevo e – solitamente la nostra tradizione prevedeva alle 10:00 la colazione pasquale di stampo umbro/marchigiana dai suoceri (leggi ciauscolo, vernaccia, pizze di pasqua, uova di cioccolato, uova sode, pizze al formaggio e molto altro ancora). A seguire, verso le 13:00 ci si spostava dai miei, per un tipico pranzo pasquale romano (leggi lasagna con i carciofi, abbacchio al forno con patate, uova di cioccolato, colomba e molto altro).
Se avessimo invitato Bastianich a unirsi a noi, la sua risposta sarebbe stata uno scontato “vuoi che muoro!?”
Ammetto che per me Pasqua era ‘na pacchia, non dovevo preoccuparmi di cosa cucinare, dovevo solo preoccuparmi di avere lo stomaco abbastanza vuoto da poter contenere il tutto.
È curioso, ma per il pranzo del 2012 non ricordavo che mio fratello non avesse lavorato, come invece faceva di solito nei giorni di festa, me l’ha fatto scoprire la foto che vedete qui sopra, fatta da me quel giorno con l’immancabile obiettivo macro, dove si vedono le sue dita che arrotolano una sigaretta, le sue dita rovinate dal lavoro. Dal lavoro in cucina.
Da anni la passione della cucina l’aveva rapito, gli occhi brillavano ogniqualvolta si parlasse di cibo (ma è un tarlo di famiglia); le mani di un allora 27enne avevano visto per anni libri, aule universitarie, poi un’estate avevano iniziato a lavorare su sacchi di patate da pulire, cozze da lavare ma ben presto erano passate a intagliare ortaggi e poi impiattamenti e decorazioni, di seguito antipasti, primi da far uscire, pesci e carni da grigliare.
Quando faccio zapping e incappo, per caso, in quelle trasmissioni culinarie che oramai riempiono l’etere (forse dovrei dire il digitale) ricolme di chef blasonati e conosciuti mi chiedo se loro, quel lavoro in cucina, lo ricordano ancora, se l’hanno abbandonato e delegano tutto alla brigata (altrimenti non saprei come possano stare in due luoghi contemporaneamente, visto che se cucini nel tuo ristorante non puoi dedicarti ad altro e che io sappia il dono dell’ubiquità è appannaggio di uno e uno solo).
Da anni vedo le pubblicità, dove chef acclamati a loro volta acclamano la tavole imbandite dove si pasteggia a Cola industriale, dove chef stellati si arrovellano per come dare un senso a una patatina fritta (industriale eddue) lei che un senso in cucina non ce l’ha.
Inevitabile chiedersi se questi uomini, questi artisti che hanno scoperto la cucina e la passione per essa tanti anni fa, che hanno lavorato, sudato e faticato per portarla avanti, per farla crescere e crescere con lei si riconoscano in quello che fanno, oggi, oggi che il marketing li compra con “poco” perché tutti noi abbiamo un prezzo (dicono) e pecunia non olet (ari-dicono). E ritorno con il pensiero a mio fratello, e a Gianluca, a Federico, a Massimo, Luca, Daniele, cuochi che trascorrono le giornate chiusi in una stanza, tra fornelli, padelle, abbattitori e griglie, a coltivare la loro passione, a buttare il loro sudore, a lavorare quando gli altri si divertono e a divertirsi mentre lavorano, in cucina, dove nascono gli chef.
Vicedirettore di questa rivista nonché blogger, giornalista, laureata in comunicazione, parlo di food ma non solo; recensisco locali ed eventi, racconto di persone e situazioni su siti e riviste. Qui su Cavolo Verde – sperando di non essere presa troppo sul serio – chiacchiero, polemizzo, ironizzo, punzecchio e faccio anche la morale.
In sintesi? Scrivo – seriamente – e mi piace. Tanto.
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