Non ho mai capito se mi piaccia di più il sapore dell’afa o della polvere.
Abitano allo stesso punto.
Al centro di me. Quando le mastico come un tabacco troppo intenso per non volerlo sputare. Fra i filari a volte vorrei buttarlo via questo caldo, questa polvere che sollevano la trincia, il muletto, il trattore.
Vorrei lanciarlo lontano, via da me, dai miei scarponi stringati, ma non ne ho la forza, le zolle arse mozzano le gambe, le cicale sono ipnotiche, il grande abbraccio del Pollino mi seduce, allora penso come sarei io via di qua.
Quale altra me sarei stata.
E penso come questa terra mi abbia reso simile a sé. Dura e fertile. Feconda e deserta. Stabile ed insignificante. Asciutta e ventosa. Come questo micro puntino da cui vi scrivo. Affossato in un angolo di mondo che, se avessi potuto, non avrei mai scelto. Quando la vita mi ci ha catapultato dopo mio padre e mia madre, mio nonno e i suoi fratelli, dopo il mio bisnonno e suo fratello, il benvenuto fu una condanna a morte.
“Vinna subito. ‘Na fimmina ca un ci reia”. Per chi non conoscesse le lingue forti: “vende subito, una donna, qua, non regge”. Così mi accolse il mio favoloso mondo, o almeno una sua larga e cospicua fetta.
Quando me lo comunicarono, insieme ad altre leggiadre notizie, mi sentii tanto bestia antica, famelica, feroce e in via di estinzione. Per giustizia devo anche dire che i veggenti si diedero davvero un gran bel da fare per far sì che la premonizione si avverasse.
E me lo chiedo perché io stia ancora lì. Me lo chiedo incessantemente: voglio rassicurarmi che non sia per ostinazione. Voglio essere sicura che non è per sputare su quella premonizione, per smentire il pronostico sotto la suola dei miei scarponi. Che sia per amore. Per gratitudine. Per vocazione.
Che questo eterno braccio di ferro tra me e un mondo feroce, un giorno possa sciogliersi in un abbraccio dove io ritrovo me stessa e chi mi è simile e, il resto, resti una ruotata sul cuore. La pioggia la laverà, il sole la scioglierà, coltiveremo e la traccia svanirà.
Risalgo a ritroso questa storia, ed ogni tappa è uno strappo, conficcata come un fico d’india su un terreno arso. È cresciuta, ha portato frutti, è cosparsa di spine. A volte penso che perché potesse radicarsi, fosse necessaria l’aridità. E sono diventata asciutta, a volte arida. Al punto tale da ammetterlo, da dirlo. Da voler raccontare una storia deludente.
Noi, contadini del mondo, siamo aridi. E se gli altri non vi si riconoscono, io sì. Ci avete voluto così. Mentre vi trastullavano descrivendoci come gli eterni bambini, sempre felici, sempre spensierati, sempre a fare ciò che piace e che gli altri vorrebbero fare chiusi nel grigio di un lavoro sicuro.
Noi senza cartellini, senza padroni, senza vincoli, senza il dio denaro. Noi eremiti felici ed ora social. Noi trendy e un po’ vintage.
Vi dico come siamo: non abbiamo un padrone, perché ne abbiamo infiniti, non abbiano vincoli perché siamo legati, abbiamo il demone del denaro da dare e da riscuotere e non sappiamo cosa sia più arduo. Siamo il cartellino di noi stessi , felici solo quando siamo ebbri di terra, ossia quasi mai, perché la tradiamo continuamente per delle luride carte, per dei sordidi conti, per le iniquità da cui difenderci. La tradiamo per mantenerla.
Allora, perdonatemi, quando ci pensate, pensateci così.
Non potete amarci se non sapete chi siamo.
Voi siete innamorati di una fantasia. Ed è l’ennesimo affronto che subiamo.
Ci amate quando facciamo capolino fra una spiga e un’altra, quando palpeggiamo un frutto, accudiamo un grappolo, il vento fra i capelli, l’orizzonte nello sguardo, la linfa nelle vene.
Quella è la nostra irriverente controfigura.
Mentre lei vi fa innamorare, delicata e volitiva, aerea e idealista, elegante e spirituale, noi siamo a baccagliare al telefono, tiriamo pugni su una scrivania, prepariamo strategie di difesa, controlliamo i prezzi e le liquidazioni, imprechiamo per le riparazioni mancanti, per le normative soffocanti, per le bugie, le falsità, i controlli, le strategie, i melliflui miti che ci appiccicate addosso.
Sappiate che mangiamo come il resto del mondo, abbiamo sonno come tutti i viventi, abbiamo sete di stabilità, di brandelli di certezza, di un po’ di sicurezza. Voglia di riscatto e dignità.
Ecco, guardateci così: come uno di voi che dipende dal cielo, dal mercato, dalle cooperative, dai consorzi, dalla UE, dalla GDO, dai sindacati, dalle associazioni, dagli ministri e gli eurodeputati. E sappiate che quando passiamo in rassegna da chi dipendiamo, salvo il cielo, ci rendiamo conto che i nostri fili li muovono tutti quelli che hanno ciò che noi non sappiamo che sia: uno stipendio assicurato, un minimo sindacale, ferie, malattie e orari di lavoro.
Siamo burattini in perenne, perdente rivolta.
La storia non è bella, ma tant’è.
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Amo la pasta che affonda. Quando la butti nell’acqua. Un tonfo secco e il fondo…
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Quando il freddo fa parte dei giorni, delle stagioni, degli anni. E così vorresti coprirti i pensieri, avvolgerli, riscaldarli, rianimarli da un lungo gelo.
Allora vorresti andartene in giro con il berretto in casa, di verghiana memoria , a coprirti per scacciar fuori ciò che ti assale e ghiaccia.
A volte fa freddo… -
Oggi è uno dei tanti giorni di silenzio. Quello nel quale si sveglia il nostro Paese e che preghiamo non venga interrotto dalle sirene ora non più impastate nei ritmi che le rendevano anonime, che ci rendevano estranei. Oggi questi silenzi siderali che avvolgono le nostre mura, hanno reso il nostro cuore più attento, il nostro udito più vigile…
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Quello che da sempre mi ha colpito nei Vangeli è come l’umanità vi sia presente in tutta la sua totalità. Come il quotidiano con i suoi gesti, i suoi riti, le sue realtà vi sia e abbia un posto fondamentale. E in questa quotidianità, il cibo, i banchetti, la convivialità è presente e trasmette la sua carica umana…
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Dove andremo? L’unica indicazione la possiamo trovare nel da dove veniamo. E’ tempo di provviste. Provviste dell’anima…
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le parole sono macigni. Sono i sassi che poniamo ai piedi di qualcuno che poi deciderà che farci, magari costruirci sopra la propria casa, la propria vita. E noi non lo sappiamo, non possiamo deciderlo e neppure modificarlo…
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Io adoro il mulo. Arroccato alla fatica. Quella che disgusta, che sembra orpello della stupidità. Quella dozzinale, di ogni giorno.
Quella degli uomini da poco, di quelli che “non sono un’aquila”, di quelli che insistono e persistono, i frustrati, per intenderci, o tali bollati. Io li adoro… -
Appena franto l’olio urla come il vagito di un neonato, ma invece di farlo nei vostri timpani lo fa nel vostro palato e nella vostra gola, con tutta la potenza che madre natura gli ha concesso. È infuriato. Del resto, come non comprenderlo?
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Mi dispiace deludervi: non ho condizionatore. E non soffro il caldo. Io il caldo lo mangio. Lo mangio, lo mordo.
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Io sono stata condannata a te. Una terra dura e austera, dolce e generosa, imprevedibile e fedele. Una terra che sa essere tutto e il contrario, e che nelle contraddizioni mi ha insegnato la temperanza, la pazienza, il rigore, la follia…
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Scrivo velocemente come chi sta aspettando qualcosa che tarda a venire: la Primavera, algida e capricciosa che non arriva e, se arriva, va via prima che si riesca ad abbracciarla, ad acciuffarla.
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Se qualcuno mi avesse chiesto quale fosse il mio lavoro avrei detto: mantenere quel mondo.
I suoi volti, le sue strette di mano, le sue voci, le sue parole. Mantenere quel mondo, la sua disperata, disarmante, onnivora bellezza.
Perché non c’era posto per altro, come di fronte all’infinito. -
A settembre stiamo un po’ tutti così. Sospesi.
Sospesi fra il vecchio e il nuovo. Fra i raccolti e le semine. Fra le albe e i tramonti e ci sembra che questi estremi siano più vicini di quanto ce lo ricordassimo, di quanto ci servirebbe per capire questi giorni come viverli, se appesi a una speranza o a un rancore. A settembre si decide cosa estirpare e cosa coltivare, cosa seminare e cosa lasciare arido, a settembre si capisce se si vuole continuare a provare a cambiare qualcosa, o lasciarci stare.