Ci eravamo sempre salutate sulle scale. Noi, lei, e anche gli odori pungenti della sua cucina nordafricana. Quando però alle dodici è suonato il campanello non pensavo di trovarmi la vicina di casa davanti, che mi invitava a pranzare da lei.
Uno dei tanti pregiudizi che abbiamo infatti, vuole che sia meglio non mischiarsi, quando non si è simili, con le stesse tradizioni, la stessa lingua, lo stesso colore di pelle e di capelli. E nemmeno le stesse abitudini alimentari. O almeno non troppo. Si va avanti cordialmente, ma con diffidenza: un timido sorriso e ognuno dietro alla propria porta chiusa.
Ma la burrosa ragazza mora mi stava proprio invitando a pranzare insieme. Chissà quante volte ci deve aver pensato per poi scuotere la testa e lasciar perdere. Me la immagino. Sorrido, accetto, a mia volta intimidita e la seguo nel suo appartamento.
Ogni casa è un mondo a se stante. Sul tavolo a cui è seduto il piccolo figlio moro e vivace capeggia una gigantesca tajine, colma di couscous giallo, su cui sono appoggiate verdure fumanti e carne. Abbondanza, che per certi popoli fa rima con ospitalità.
Prima di sedersi mi versa un bicchiere di the alla menta. Pranziamo, mi gusto quella pietanza che ha il sapore giusto, quello di un piatto che è cucinato con la saggezza del popolo che l’ha creato.
Altri timidi sorrisi. Non è che abbia molto da dirle, ma nonostante questo le sono grata, quanto meno per lo sforzo che ha fatto per concedermi i suoi spazi. Spiega che il marito è sempre via per lavoro, in Francia prevalentemente. Mi palesa la sua solitudine di donna straniera senza auto, in un paese di provincia. Non posso che dispiacermi per lei. Ci salutiamo, dopo averla ringraziata di cuore.
Passa qualche ora e mentre sono intenta nei miei affari suona di nuovo il campanello. è Sumia che mi ha portato dei biscottini. “Vieni a trovarmi quando vuoi, ti aspetto”.
In barba ai pregiudizi, il cibo ha intrecciato una nuova amicizia.
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