Vi siete mai chiesti cosa significa saper cucinare?
Non molto tempo fa il mio amico Stefan mi fece notare come, nonostante le sue origini italiane, non fosse in grado di cucinare alcun piatto italiano perché: “Prendi il sugo di pomodoro per esempio, dovrebbe essere semplice da fare, posso anche leggere una ricetta ma non mi verrà mai come il tuo perché non so mischiare gli ingredienti, non conosco la loro successione, la consistenza giusta, insomma mi mancano completamente le basi.”
In effetti, se pensiamo a quando abbiamo imparato a cucinare il libro di ricette che la mamma teneva all’interno del mobiletto della TV è probabilmente l’ultima cosa a venirci in mente.
Nel mio caso, quando penso a come ho imparato a cucinare mi vengono in mente le donne della mia famiglia: le zie, le nonne, la mamma. Sono loro che mi hanno trasmesso come saper fare il sugo, la crema al limone, la pasta per fare le panadas, le tzipulas, e il pane. Anche per preparare una semplice pastasciutta bisogna saper fare.
In questo senso cucinare, o meglio, saper cucinare è uno di quei saperi tecnici che si esprime attraverso la memoria del corpo. In altre parole, saper cucinare è un sapere incorporato.
Capita a tutti di conoscere perfettamente la successione degli ingredienti per preparare un certo piatto eppure non essere in grado di scrivere la ricetta, cioè di “tradurre” il piatto in una lista di pesi e misure e di “scomporre” la preparazione in una serie di piccoli passi successivi. A me è capitato con la crema di limone. La crema di limone è una crema pasticcera molto delicata che la zia Antonietta preparava a noi bambini per merenda. Si mangiava così, fresca, appena tolta dal frigo con ancora all’interno le bucce dei limoni raccolti nell’orto.
Oggi, quando preparo la crema di zia Antonietta i miei gesti ripetono quelli della zia, il mio corpo, le mie mani e i miei sensi sono guidati dal ricordo delle ore passate a osservarla mentre mescolava sapientemente tutti gli ingredienti, senza curarsi di leggere alcuna ricetta.
Questa memoria del corpo è forse ancora più evidente quando preparo la pasta per fare sa panada. La panada è un piatto unico molto ricco diffuso in Sardegna, di cui Assemini e Oschiri rappresentano le due “scuole” principali. In questo caso il corpo non solo segue il ritmo della memoria, ma anche il suono della mia lingua madre, il sardo.
È in sardo che ho imparato a spongiai e scadassiai l’impasto a seconda del tipo di pietanza che devo preparare. L’intera preparazione, fatta di gesti, di movimenti delle mani, delle dita, dii sapori, di odori, tutto questo saper fare è un saper fare in sardo.
A questo saper fare esperto corrispondono tutta una serie di oggetti che popolano la nostra cucina e che cambiano col tempo, si rinnovano, e a volte spariscono. Nella cucina delle mie nonne, o meglio nello spazio dedicato alla preparazione e cottura del pane, gli attrezzi del mestiere erano rappresentati da sa sarreta, s’otilloni, is ferrixeddus. Tutti oggetti di ferro che venivano utilizzati per decorare su cocoi, un pane sardo che spesso assume le sembianze di una piccola opera d’arte. Questi oggetti sono quasi del tutto assenti nelle nostre cucine, sempre più spesso popolate da oggetti differenti, perché è cambiato il nostro modo di cucinare e il nostro modo di mangiare. Ma questa è un’altra storia…
Saper cucinare significa dunque saper ricordare con tutto il corpo.
E chissà, magari Stefan non è in grado di preparare il sugo all’italiana, però sa cucinare altre cose, differenti, che derivano da un altro saper fare, in una lingua diversa, ma pur sempre buone da pensare e… da mangiare ovviamente!
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