Noi siamo i bastian contrari.
Quelli che, tra un ciclone e un anticiclone, la penseranno sempre diversamente da voi.
Diversamente dal comune sentire, dalla prassi consolidata.
Forse perché entrambi si sono da tempo dissociati da noi?
È questione di tempo allora?
Sì, tempo in tutti i sensi.
Da quanto tempo la società civile ci ha messo ai margini, ci ha relegato, più che ai confini, al confino del comune sentire?
O siamo stati noi agricoltori a scegliere la strada dell’esilio? A voler rimanere in disparte, in isolamento, rinchiusi e rintanati nel nostro mondo che, al vostro, serviva solo come rifornimento, come carburante?
Non parlo di dispensa, anche se noi, invero, siamo la vostra dispensa, quella alla quale accedete, distrattamente e spesso a luci spente, per trarre qualcosa di utile per continuare a vivere, o sopravvivere. Sopravvivere, come chiunque non abbia con il proprio Alimento un nesso stretto di conoscenza e ancor più di scelta.
Voi non scegliete più cosa mangiare e per questo noi non siamo più la vostra protetta e curata dispensa di antica memoria contadina, noi siamo la pompa di benzina del vostro serbatoio. Quello che si riempie alle stazioni di servizio e che, spesso, raggiunge la linea di pieno dove il gasolio è più conveniente, o dove ci capita di fermarci perché siamo in riserva, o perché offre servizi collaterali migliori: le toilette sono pulite, c’è poca fila alla cassa, è vicino allo svincolo autostradale.
Voi, oramai, o la maggior parte di voi, sceglie con cura e consapevolezza tutto il resto, tranne chi e cosa deve riempire il serbatoio del vostro corpo.
Così mangiate e comprate da mangiare dove c’è possibilità di parcheggio, dove è vicino casa, dove il prezzo è conveniente, dove ci sono le offerte civetta, dove l’ambiente è confortevole o alla moda, dove vi ha segnalato il vostro vicino, o il personale è gentile, dove qualsiasi dove tranne dove il cibo vi guida.
Ed ecco perché i nostri e i vostri tempi sono diversi e spesso in antitesi.
Perché i nostri tempi sono i tempi del cibo, della terra, delle stagioni, delle mietiture e dei raccolti, i tempi delle stagioni, i tempi di tutto ciò che, molti, da tempo, hanno dimenticato, dimenticato a tal punto da non conoscerli più. Dimenticato al punto tale che le gdo più ammiccanti vi attirano con un cartellone dove vi spiegano i frutti e le verdure di stagione. Peccato che sotto quei cartelloni poi vi propongano le verze in estate, a fianco ai peperoni, e peccato che in tutto quel repertorio, nessuno vi stia a spiegare perché un melograno che ha fatto centinai di chilometri nel vostro serbatoio darà meno sprint di uno che stava lì, a pochi metri da casa vostra, ma in un tempo diverso rispetto a quello in cui il venditore ha voluto proporvelo.
Noi siamo quelli che, quando vi lamentate perché l’escursione fra la notte e il giorno è fastidiosa, ringraziamo Dio della stessa, perché a noi serve. Quelli che come sinonimo di un grande sollievo diciamo “è un’acqua di maggio”, la stessa contro la quale voi imprecate perché dovete rimettere le scarpe chiuse dopo i primi sandali e relativi smalti.
Quelli che quando fa freddo deve fare freddo, ma freddo freddo perché le piante devono dormire, se no poi non riescono a portare buoni frutti. Quelli che quando deve fare caldo, lo respiriamo, lo abbracciamo, lo benediciamo, mentre voi vorreste un’eterna primavera.
Noi siamo quelli che il meteo lo guardiamo perché se facciamo il rame e poi piove, piove sui nostri raccolti, sulla salute delle nostre piante e non sul nostro week end programmato.
Venite nel nostro tempo.
E aiutateci a proteggerlo. Amatelo. Perché amando esso amate anche noi. Quelli che non vogliono darvi le melanzane a dicembre, perché per farlo dobbiamo andare contro il tempo e perché il vostro Tempo non ne ha bisogno, il vostro Tempo a dicembre ha bisogno di cavoli.
E che cavolo!
Amateci, perché amando noi amate voi stessi, i vostri tempi, il tempo del vostro corpo, del vostro pianeta.
Non voglio dirvi nulla, tranne chiedervi una cosa: quando guardate il tempo, d’ora in poi, fatelo come noi.
Pensatelo come noi, o almeno pensate a noi. E non solo il tempo meteorologico e non solo le stagioni ma il tempo, la modalità di esistere, gli attimi che riempiono le nostre vite come le molecole che riempiono il nostro corpo.
Quando comprate un pane, quando mordete una pesca, quando sbucciate un mandarino, quando quei 12 minuti di cottura di un rigatone vi sembrano un’eternità perché siete stanchi, perché avete fretta, perché avete fame, pensate che quei vostri 12 minuti sono i nostri 12 mesi, da quando lavoriamo la terra a quando trebbiamo.
Pensate che sbucciare richiede pochi istanti, portarvi quella buccia piena di un buon frutto richiede un anno. Pensate quei nostri tempi e accorciate le distanze fra noi e voi. Quando mangiate, pensate che state mangiando un anno di noi e che quell’impazienza di fame, stanchezza, fretta della vostra manciata di minuti, noi l’abbiamo provata per 12 mesi. Perché anche noi abbiamo fretta, fame, stanchezza e la sublimiamo per poter essere in grado di portare un prodotto finito e sano. Quando lo mangiate state mangiando un anno di noi, di riso di pianto, di paura, di soddisfazioni e umiliazioni, di speranze e delusioni.
Pensateci, pensate a noi, cercate e trovate il sapore che dia senso a un anno di noi. Non mangiate così, tra un’uggia e un’altra. Non sceglieteci per caso.
Date senso al tempo che abbiamo coltivato per voi.
-
Amo la pasta che affonda. Quando la butti nell’acqua. Un tonfo secco e il fondo…
-
Quando il freddo fa parte dei giorni, delle stagioni, degli anni. E così vorresti coprirti i pensieri, avvolgerli, riscaldarli, rianimarli da un lungo gelo.
Allora vorresti andartene in giro con il berretto in casa, di verghiana memoria , a coprirti per scacciar fuori ciò che ti assale e ghiaccia.
A volte fa freddo… -
Oggi è uno dei tanti giorni di silenzio. Quello nel quale si sveglia il nostro Paese e che preghiamo non venga interrotto dalle sirene ora non più impastate nei ritmi che le rendevano anonime, che ci rendevano estranei. Oggi questi silenzi siderali che avvolgono le nostre mura, hanno reso il nostro cuore più attento, il nostro udito più vigile…
-
Quello che da sempre mi ha colpito nei Vangeli è come l’umanità vi sia presente in tutta la sua totalità. Come il quotidiano con i suoi gesti, i suoi riti, le sue realtà vi sia e abbia un posto fondamentale. E in questa quotidianità, il cibo, i banchetti, la convivialità è presente e trasmette la sua carica umana…
-
Dove andremo? L’unica indicazione la possiamo trovare nel da dove veniamo. E’ tempo di provviste. Provviste dell’anima…
-
le parole sono macigni. Sono i sassi che poniamo ai piedi di qualcuno che poi deciderà che farci, magari costruirci sopra la propria casa, la propria vita. E noi non lo sappiamo, non possiamo deciderlo e neppure modificarlo…
-
Io adoro il mulo. Arroccato alla fatica. Quella che disgusta, che sembra orpello della stupidità. Quella dozzinale, di ogni giorno.
Quella degli uomini da poco, di quelli che “non sono un’aquila”, di quelli che insistono e persistono, i frustrati, per intenderci, o tali bollati. Io li adoro… -
Appena franto l’olio urla come il vagito di un neonato, ma invece di farlo nei vostri timpani lo fa nel vostro palato e nella vostra gola, con tutta la potenza che madre natura gli ha concesso. È infuriato. Del resto, come non comprenderlo?
-
Mi dispiace deludervi: non ho condizionatore. E non soffro il caldo. Io il caldo lo mangio. Lo mangio, lo mordo.
-
Io sono stata condannata a te. Una terra dura e austera, dolce e generosa, imprevedibile e fedele. Una terra che sa essere tutto e il contrario, e che nelle contraddizioni mi ha insegnato la temperanza, la pazienza, il rigore, la follia…
-
Scrivo velocemente come chi sta aspettando qualcosa che tarda a venire: la Primavera, algida e capricciosa che non arriva e, se arriva, va via prima che si riesca ad abbracciarla, ad acciuffarla.
-
Se qualcuno mi avesse chiesto quale fosse il mio lavoro avrei detto: mantenere quel mondo.
I suoi volti, le sue strette di mano, le sue voci, le sue parole. Mantenere quel mondo, la sua disperata, disarmante, onnivora bellezza.
Perché non c’era posto per altro, come di fronte all’infinito. -
A settembre stiamo un po’ tutti così. Sospesi.
Sospesi fra il vecchio e il nuovo. Fra i raccolti e le semine. Fra le albe e i tramonti e ci sembra che questi estremi siano più vicini di quanto ce lo ricordassimo, di quanto ci servirebbe per capire questi giorni come viverli, se appesi a una speranza o a un rancore. A settembre si decide cosa estirpare e cosa coltivare, cosa seminare e cosa lasciare arido, a settembre si capisce se si vuole continuare a provare a cambiare qualcosa, o lasciarci stare.