La cosa più difficile da trovare è il titolo.
Il titolo è il DNA.
Il Titolo è il Dna delle parole che verranno. Che ci saranno, che daranno corpo a uno scambio che ogni tanto, magari spesso, magari mai, prenderà forma fra voi e me. Fra me e voi.
Un titolo. Poche sillabe una dietro l’altra. Una catena che segnerà la forza e l’essenza di una vita.
Perché le parole sono vita. Altrimenti sono chiacchiere, quelle che ci possono essere o meno, tanto si va avanti lo stesso. Le parole no. Sono quelle che esternano un vissuto.
Forse allora, per trovare il titolo, è meglio fare un passo indietro. Partire dal vissuto. Dal mio. Da un punto. Da un giorno, da un anno. Che può essere vicino o lontano. Che può essere recente o meno. Ma che è.
E’ concretamente. Perché noi abbiamo tutti bisogno di parole che siano reali e, per essere tali, devono partire da una realtà e volerla esprimere, raccontare, spiegare, giudicare, trasmettere.
Io parto dalla mia realtà e le mie parole vi racconteranno, o proveranno a farlo, quella.
Un’azienda agricola, in Calabria, negli anni 2000.
A questo punto il rischio forte è che a nessuno interesserà leggere quello che io dirò.
Perché, una realtà così contingente, così dettagliata, così unica, dovrebbe interessare?
Me lo chiedo anche io. E una risposta la ho. Perché quello che io vivo è quello che vivono tantissime altre persone che nello stesso mio tempo e nello stesso mio Paese stanno provando a fare lo stesso mio lavoro.
Allora saranno solo loro gli interessati? Staremo ancora a raccontarcela fra di noi?
Spero di no. Spero che quel punto, quel posto, quel lavoro riescano finalmente a intrecciarsi con tutte le migliaia di persone che, forse senza mai averlo considerato prima, sono molto più vicino a questa realtà di quanto possa sembrare.
Noi siamo quelli che vi danno da mangiare.
Affermazione altisonante.
Come tutte quelle molto spicciole, molto semplici, molto nude.
Io, e quelli come me, lavoro per produrre il vostro cibo.
Non ho null’altro di interessante, di importante, di peculiare.
Le mie parole vogliono essere una fune, quella che potete tirare se volete avvicinarci a voi.
Come lo chiamiamo il contenitore di queste parole?
Torniamo al DNA. Io voglio raccontarvi la verità. La verità delle nostre giornate. Non so se vi piacerà o meno. Sicuramente deluderà le vostre aspettative. Certamente sarà molto diversa da tanto altro che avete letto e ascoltato.
Non ci vedrete più truccati e entusiasti cinguettare da un microfono. Non sentirete più osanna e amen.
Non starete comodi vedendoci felici. E neppure tranquilli vedendoci protetti.
Ma starete con noi. Nei nostri fiati, quelli interminabili e quelli sospesi. Nelle nostre giornate e nelle nostre nottate. Io non vi insegnerò nulla. Non vi spiegherò nulla. Non farò nessuno scoop. Io vi tirerò a me, a noi, alla terra.
Perché voglio che anche lì ci siano le vostre orme. Le orme di chi ha deciso di avvicinarsi un po’ senza paura di sporcarsi le mani.
Allora lo chiamerò Limitrofo.
In agricoltura i limitrofi sono quelli che sanno tutto di noi. Quando ariamo e quando trebbiamo, se concimiamo e se potiamo, se piangiamo e se raccogliamo. Sono quelli che ci stanno vicino. I confinanti.
Ma limitrofo è pure un termine che viene da due lingue spacciate per morte che pure ancora tanto vivono nella nostra bocca, un po’ come noi agricoltori.
Limes ‘limite’ in latino e tréphein ‘nutrire’ in greco.
E limitrofe erano quelle zone che sostentavano le guarnigioni di presidio ai confini dell’Impero. Confine e nutrimento.
Noi siamo il presidio ai confini della catena alimentare. Noi siamo i presidi al confine del vostro cibo. Noi siamo il presidio al confine del vostro nutrimento.
Ma voi siete il nostro nutrimento.
E’ senza di voi che noi non possiamo essere.
E’ senza di noi che voi non potete essere.
Noi siamo i vostri limitrofi e voi i nostri.
Ché sia fra di noi un patto di buon vicinato.
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Amo la pasta che affonda. Quando la butti nell’acqua. Un tonfo secco e il fondo…
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Quando il freddo fa parte dei giorni, delle stagioni, degli anni. E così vorresti coprirti i pensieri, avvolgerli, riscaldarli, rianimarli da un lungo gelo.
Allora vorresti andartene in giro con il berretto in casa, di verghiana memoria , a coprirti per scacciar fuori ciò che ti assale e ghiaccia.
A volte fa freddo… -
Oggi è uno dei tanti giorni di silenzio. Quello nel quale si sveglia il nostro Paese e che preghiamo non venga interrotto dalle sirene ora non più impastate nei ritmi che le rendevano anonime, che ci rendevano estranei. Oggi questi silenzi siderali che avvolgono le nostre mura, hanno reso il nostro cuore più attento, il nostro udito più vigile…
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Quello che da sempre mi ha colpito nei Vangeli è come l’umanità vi sia presente in tutta la sua totalità. Come il quotidiano con i suoi gesti, i suoi riti, le sue realtà vi sia e abbia un posto fondamentale. E in questa quotidianità, il cibo, i banchetti, la convivialità è presente e trasmette la sua carica umana…
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Dove andremo? L’unica indicazione la possiamo trovare nel da dove veniamo. E’ tempo di provviste. Provviste dell’anima…
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le parole sono macigni. Sono i sassi che poniamo ai piedi di qualcuno che poi deciderà che farci, magari costruirci sopra la propria casa, la propria vita. E noi non lo sappiamo, non possiamo deciderlo e neppure modificarlo…
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Io adoro il mulo. Arroccato alla fatica. Quella che disgusta, che sembra orpello della stupidità. Quella dozzinale, di ogni giorno.
Quella degli uomini da poco, di quelli che “non sono un’aquila”, di quelli che insistono e persistono, i frustrati, per intenderci, o tali bollati. Io li adoro… -
Appena franto l’olio urla come il vagito di un neonato, ma invece di farlo nei vostri timpani lo fa nel vostro palato e nella vostra gola, con tutta la potenza che madre natura gli ha concesso. È infuriato. Del resto, come non comprenderlo?
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Mi dispiace deludervi: non ho condizionatore. E non soffro il caldo. Io il caldo lo mangio. Lo mangio, lo mordo.
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Io sono stata condannata a te. Una terra dura e austera, dolce e generosa, imprevedibile e fedele. Una terra che sa essere tutto e il contrario, e che nelle contraddizioni mi ha insegnato la temperanza, la pazienza, il rigore, la follia…
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Scrivo velocemente come chi sta aspettando qualcosa che tarda a venire: la Primavera, algida e capricciosa che non arriva e, se arriva, va via prima che si riesca ad abbracciarla, ad acciuffarla.
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Se qualcuno mi avesse chiesto quale fosse il mio lavoro avrei detto: mantenere quel mondo.
I suoi volti, le sue strette di mano, le sue voci, le sue parole. Mantenere quel mondo, la sua disperata, disarmante, onnivora bellezza.
Perché non c’era posto per altro, come di fronte all’infinito. -
A settembre stiamo un po’ tutti così. Sospesi.
Sospesi fra il vecchio e il nuovo. Fra i raccolti e le semine. Fra le albe e i tramonti e ci sembra che questi estremi siano più vicini di quanto ce lo ricordassimo, di quanto ci servirebbe per capire questi giorni come viverli, se appesi a una speranza o a un rancore. A settembre si decide cosa estirpare e cosa coltivare, cosa seminare e cosa lasciare arido, a settembre si capisce se si vuole continuare a provare a cambiare qualcosa, o lasciarci stare.