Per chi da italiano vive all’estero è sempre stimolante confrontarsi con la visione che dall’esterno si ha della nostra cultura e inevitabilmente, se si lavora nel settore della gastronomia, si è costretti a fare i conti con molti e spesso consolidati cliché: quelli della pizza e della pasta, delle ricette finte come la “pasta asciutta” – che in Germania e Austria equivale alla ricetta degli ormai mitici “spaghetti bolognese” – o dei calamari alla griglia (arrivati direttamente dall’Oceano Indiano).
Bisogna, come è ovvio, resistere alla tentazione di cullarsi su questi presunti allori e proporre sempre una versione più autentica e allo stesso tempo più ricca e articolata, il che per me ha voluto dire valorizzare la ricchezza delle diverse cucine regionali italiane, anche (ri)scoprendole io stesso.
Ma si deve anche sapere che quei cliché sono spesso la base di una serie di pregiudizi positivi, di chi in fondo ama la ricchezza della nostra cultura culinaria diffusa, ma in modo ancora un po’ superficiale: bisognerà coltivare un terreno fertile, dunque, ma con pazienza.
Infine, forse per essere arrivato alla cucina non da una formazione ortodossa, ma dopo aver condiviso le lotte dei movimenti sociali di tante parti del mondo al modello agricolo e commerciale della Organizzazione Mondiale per il Commercio, dopo aver imparato dagli indios dell’America Latina a prefigurare una società di armonia tra i popoli e con la natura, mi sforzo di costruire – un po’ alla volta – una cucina che sia in sintonia con questa visione:
costruire relazioni con agricoltori del territorio in cui si lavora, scovare tra questi chi abbia un approccio simile al mio, stare fuori dai circuiti dell’agrobusiness e della grande distribuzione.
Ma questo significa anche staccarsi dalla “tradizione” e sfidare i nostri stessi pregiudizi. Sei per i prodotti a chilometro zero o per i prodotti originali italiani?
A titolo di esempio, mi piace parlare della più bella e duratura di queste collaborazioni, ormai decennale, con un famiglia di produttori di carciofi a pochi chilometri da Vienna. “Carciofi a Vienna”? “Ma sono buoni”? “Non fa troppo freddo”? “Io mangio solo quelli italiani…”. Ebbene: la visione di qualcosa di nuovo e la determinazione, potremmo dire l’amore per questa verdura, erano così forti da spingere Stephanie Theuringer – più di 10 anni fa ormai – a sperimentare, provare, fare tentativi e infine a inventare un metodo di coltivazione che ormai è in grado di produrre circa 30 mila piante, con carciofi di ottima qualità in 4 specie diverse e con una stagionalità diversa da quella italiana, visto che il raccolto è in genere da luglio a fine settembre.
Io sapevo che cosa fare con un carciofo in cucina, cosa in Austria ancora in parte misteriosa, ma è stata una bella novità avere i carciofi a chilometro zero in estate e quindi esplorare combinazioni assolutamente nuove.
Ecco, dunque un pezzetto di questa nostra idea concretizzarsi: un prodotto italiano per eccellenza, lavorato secondo la nostra cultura gastronomica, ma in un contesto nuovo, che costruisce sapori necessariamente diversi, che sia per noi che per chi ama la cucina “italiana” evocano con forza quello che già conosciamo e sappiamo, ma mescolandosi ad altro ci portano in qualche luogo nuovo, tutto da scoprire.
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