Mi capitò una sera, di circa tre anni fa, dovevo scrivere la recensione di un ristorante per una rivista per cui lavoravo e non avevo nessuno che venisse con me a provare il locale. Era la prima volta che succedeva.
Essendo lavoro non potevo certo tirarmi indietro, così mi recai al ristorante, mandai giù quella che io interpretai come la faccia vagamente interdetta del cameriere, mi sedetti e iniziò.
Iniziò un’esperienza.
Ordinai in lentezza, dopo aver letto il menù con attenzione, aspettai i miei piatti guardando i particolari del locale, osservando la gente che entrava alla spicciolata.
E poi, dopo che fui servita, incominciai a mangiare, con gli occhi prima che con la bocca, annusando prima ancora di degustare; studiai, valutai e poi assaporai, masticando senza parlare, boccone dopo boccone, tenendo il cibo in bocca senza il dovere di ingoiare per parlare con un inesistente interlocutore.
E tra una portata e l’altra mi divertii a sbirciare gli altri.
Non sono mai stata una che si interessa agli estranei. Da quel che dicono a quel che fanno. Preferisco badare a me, sono già abbastanza impegnativa per trovar tempo di far caso anche alle persone, sconosciute, che mi circondano. La classica sbadata menefreghista.
Invece quella sera iniziai a sentire e vedere gli altri, individui che condividevano con me lo spazio di un luogo poco conosciuto, per il tempo limitato di una cena.
La moglie che raccontava i particolari della vita di un’amica al marito annoiato; la famigliola completa di nonni che commentava la cena mentre ancora stava avvenendo; i fidanzatini con la faccia infilata nei loro smartphone e, magari, il cuore altrove; due uomini che si erano portati il lavoro a tavola o, forse, erano seduti a quel tavolo per parlarne, di lavoro.
Da quel giorno mi è capitato molto spesso di mangiare da sola, anzi, per correttezza dovrei dire “ho scelto di mangiare da sola”; quando mi prende voglia di [una cucina a caso] non so aspettare di organizzare una cenetta con qualche amica per il prossimo fine settimana, io prendo e vado, scelgo il locale, mi siedo, mi studio il menù e mi godo la cena, da sola. Oramai non faccio più caso agli sguardi della gente, perché se è vero che a pranzo capita spesso di vedere persone mangiare in solitaria, per pause pranzo veloci, tappe momentanee ma obbligate durante una frenetica giornata lavorativa, è altrettanto vero che a cena, nei ristoranti, è molto più raro trovarne.
Eppure, se voi sapeste, com’è bello e appagante mangiare da sola, concentrarsi sulla tua ordinazione, sulla preparazione dello chef, dedicargli tutto il tuo tempo, tutta la tua attenzione, in qualche modo è dare importanza al lavoro altrui.
Quando un senso viene escluso gli altri si acuiscono e non serve una privazione definitiva, ne basta una momentanea, gli altri sensi corrono a sopperire alla sua mancanza per cui – se mangi da sola, la vista si concentra sul piatto, l’udito si autoesclude, il gusto si potenzia, e via di seguito.
Si crea un legame, un legame stretto, un bondage culinario tra te e il cibo che ti regala un’emozione unica nel suo genere, un’esperienza forte, intensa, violenta se vogliamo, un’esperienza che vi consiglio di provare, almeno una volta nella vita.
Parafrasando Steve Jobs: Siate curiosi, siate sfacciati, mangiate (anche) da soli.
Vicedirettore di questa rivista nonché blogger, giornalista, laureata in comunicazione, parlo di food ma non solo; recensisco locali ed eventi, racconto di persone e situazioni su siti e riviste. Qui su Cavolo Verde – sperando di non essere presa troppo sul serio – chiacchiero, polemizzo, ironizzo, punzecchio e faccio anche la morale.
In sintesi? Scrivo – seriamente – e mi piace. Tanto.
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